Abstract
Nel vasto e variegato panorama delle esperienze artistiche contemporanee più attente alla sfera della spiritualità, gli interventi luminosi, le video-installazioni e le vere e proprie opere digitali sono ancora presenze inusuali negli edifici sacri. Tuttavia, la loro connaturata incorporeità si è dimostrata uno strumento assai efficace nell’evocare la trascendenza, e sembra dunque poter aprire orizzonti assai interessanti. Il contributo propone la lettura comparata di alcune di queste emergenze, spaziando dai più datati lavori di Dan Flavin e Bill Viola alle più recenti opere di Piotr Piasta, Davide Coltro e Pier Paolo Patti.
Quando si sfoglia un manuale di storia dell’arte contemporanea è piuttosto raro imbattersi in opere dal soggetto esplicitamente e riconoscibilmente religioso, e tra l’altro non si può non notare come la frequenza di tali incontri si faccia sempre più rada con il passare dei decenni, in conseguenza del processo di graduale secolarizzazione della civiltà occidentale. Tuttavia, ciò non significa affatto che l’interesse degli artisti nei confronti del sacro sia scomparso, anzi; e a testimoniarlo in maniera inequivocabile sono non solo le tante esperienze latamente spirituali o variamente tendenti al ‘sublime’ che attraversano l’arte dell’intero Novecento (da Malevič a Rothko, da Nancy Holt ad Ana Mendieta), ma anche i numerosi episodi di diretta e concreta collaborazione tra la Chiesa e gli artisti della contemporaneità (da Denis a Severini, da Rouault a Matisse, da Sutherland a Fontana, da Manessier a Richter, a tantissimi altri ancora[1]. In questo contesto generale, una presenza recente ed estremamente interessante è quella dell’arte più avanzata tecnologicamente, la cui connaturata incorporeità si dimostrata assai efficace nell’evocazione della trascendenza.
L’estatica luminosità della fede. Dan Flavin alla Chiesa Rossa di Milano
Straordinario, innanzitutto, è l’intervento luminoso con il quale Dan Flavin ha saputo qualificare esteticamente e spiritualmente la Chiesa di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa di Milano[2], peraltro già di per sé opera architettonicamente interessante perché ben rappresentativa della nitidezza per così dire ‘francescana’ – ma non per questo aproblematica – dello stile progettuale di Giovanni Muzio, che non a caso è stato più volte chiamato a disegnare gli spazi della liturgia[3].
Flavin ha cinto l’architettura interna della chiesa con un sistema di tubi a fluorescenza di diversi colori che sono quasi nascosti alla vista dell’osservatore e che si azionano quando inizia la penombra, immergendo a quel punto l’edificio – e con esso, soprattutto, il fedele che lo abita e che ne respira intimamente la finalità liturgica – in un’atmosfera eterea ma assai intensa, nella quale la fisicità terrena e decisamente abituale della comune luce al neon (che pure, nella maniera più manifesta, è luce «storica» e non «eterna»)[4] acquisisce un’impalpabile ma davvero vivissima qualità metafisica. Evidentemente, dunque, non si tratta di una semplice operazione di illuminazione dello spazio architettonico, ma semmai di una sua trasfigurazione attuata per mezzo di un’installazione[5] che dell’architettura della chiesa «ricomprende i profili, taglia gli angoli, ridisegna i volumi, rivede le prospettive», servendosi del tubo fluorescente per ottenere un’«ampia risonanza spaziale, sia sotto il profilo della percezione chiaroscurale che sotto quello delle combinazioni cromatiche»[6]. In questo modo lo spazio illuminato in blu, rosa, giallo dorato e ultravioletto diviene una sorta di enorme e anzi ‘ambientale’ «icona non figurativa»[7] che risplende della vitalità della luce che si fa rivelazione.
Non può sfuggire, in primo luogo, la connessione dell’opera di Flavin con la tradizione della vetrata chiesastica, che peraltro nella contemporaneità ha conosciuto una nuova e interessantissima fioritura[8], e in particolare si può convenire sia con Pierangelo Sequeri, che ha significativamente definito la proposta di Flavin come «la profezia di una moderna rielaborazione teologica della vetrata»[9], sia con Pierluigi Lia, che ha invece giustamente sottolineato come nell’intervento della Chiesa Rossa l’inversione della consueta direzione della luce – che non è più da fuori a dentro, ma da dentro a fuori – aggiunga un’ulteriore sollecitazione, con la chiesa che in qualche misura si protende al di fuori di se stessa per permeare la vita della comunità circostante che la frequenta e che in essa si riconosce[10]. Inoltre, accanto a questo parallelismo facilmente intuitivo si potrebbe allargare la suggestione anche ad alcune altre ben definite emergenze della decorazione parietale a mosaico (si pensi al fondo oro delle basiliche paleocristiane, bizantine e normanne) o, talora, anche dipinta: è il caso, ad esempio, delle diafane e pervasive decorazioni di chiese di Valentino Vago[11], così come – a suo modo – della stessa Cappella degli Scrovegni, davvero modernamente ‘ambientale’ nella scelta dell’intensa caratterizzazione blu lapislazzulo che accende l’intera scatola spaziale; e a proposito di ambienti, non è neppure inopportuno avvicinare l’installazione di Flavin – sia pur, ovviamente, con la dovuta cautela critica – alle intenzioni sottilmente trascendenti di environments fortemente segnati dalla presenza e dall’azione della luce, come ad esempio quelli di Fontana[12] e di Turrell[13].
La temporalità dell’esperienza spirituale. Le videoinstallazioni di Bill Viola
Se per Flavin l’incontro con la sfera della spiritualità è stato occasionale, nel lavoro di Bill Viola la trascendenza ha invece sempre costituito un leitmotiv tanto persistente quanto diversamente declinato a seconda delle circostanze, nonché sviluppato in una prospettiva in qualche misura ‘sincretica’ grazie all’equilibrio con cui l’artista americano ha saputo miscelare e tenere in sospensione la tradizione della religiosità occidentale e le molte e significative ascendenze orientali che hanno fortemente influenzato il suo modo di rapportarsi alla vita e alla stessa creazione artistica[14]. Inoltre, e forse proprio in ragione di tale sottile equilibrio aconfessionale, si può aggiungere che le opere di Viola non sono in alcun modo assertive, ma piuttosto aspirano ad evocare sottilmente il Mistero: non a caso, infatti, tra i principali punti di riferimento filosofici delle sue ricerche si pone la cosiddetta Via Negativa di San Giovanni della Croce, ovvero la strada mistica basata sulla consapevolezza profonda della sostanziale «inconoscibilità di Dio», il quale è «totalmente altro, indipendente, completo» e dunque «non si può cogliere con l’intelletto umano, non si può descrivere in alcun modo», con il risultato che «quando la mente si trova di fronte alla realtà divina, si svuota, si arresta, entra in una nube di non conoscenza. Quando gli occhi non vedono, l’unica cosa che funziona è la fede e l’unico modo per avvicinarsi a Dio è l’interiorità»[15].
Con le videoinstallazioni di Viola si entra prepotentemente nell’universo del digitale, anche se le sue prime opere in cui compaiono riflessioni visive sulla trascendenza sono decisamente anteriori al momento dell’assoluto dominio delle logiche della programmazione binaria; inoltre, la differenza rispetto al lavoro di Flavin è totale sotto il profilo dell’esito formale, poiché l’assoluto ed estatico aniconismo luminoso dell’artista minimalista lascia qui spazio ad una ‘figurazione’[16] – se così possiamo ancora chiamarla, trattandosi di videoarte – che programmaticamente intende mantenere in tutta la sua forza anche la suggestione poetica della narratività, sviluppata tramite mezzi tecnologici anche cinematografici e giungendo a lambire il territorio della sperimentazione teatrale più visivamente avvincente (si pensi a Peter Brook o a Bob Wilson). In particolare, l’opera senz’altro più nota di Viola è The Greeting, rilettura attenta ma assai creativa – e dunque nient’affatto pedissequa – della Visitazione del Pontormo; ma come detto sono davvero moltissimi i suoi lavori (da Emergence che si relaziona con Masolino da Panicale a Catherine’s Room che dialoga con Andrea di Bartolo, da The Crossing a The Path, da Room of St. John of the Cross alla serie dei Martyrs, da The Messenger a The Deluge) che manifestano chiaramente l’interesse dell’artista per le tematiche spirituali. A suo avviso, anzi, «il senso profondo, la fonte e l’ispirazione di tutta l’arte, è che la vita non finisce per sempre»[17].
In tutti questi lavori gli elementi che contribuiscono a generare e ad esprimere la trascendenza sono molti e molto intrecciati, e tra di essi – indubbiamente – i riconoscibili riferimenti iconografici e anche compositivi tratti dalla tradizione dell’arte cristiana occidentale svolgono un ruolo importante; tuttavia, sarebbe davvero miope limitarsi ad una lettura di questo tipo, magari prendendosi persino la libertà di rimproverare polemicamente Viola – per non fare che un esempio, e come è davvero capitato di sentire – di «non aver capito cos’è una Visitazione», come se l’intenzione dell’artista statunitense fosse stata banalmente quella di tradurre in video le opere pittoriche antiche a cui egli ha guardato. Le videoinstallazioni di Viola, infatti, non copiano né riproducono affatto i modelli del passato, ma si servono dei dettagli e della stessa struttura complessiva di tali dipinti solamente quali mezzi volti a favorire un’immediata acclimatazione dello spettatore – proprio grazie alla chiara riconoscibilità religiosa degli elementi citati – nell’atmosfera sovrasensibile nella quale le opere aspirano a proiettarlo. Peraltro, in tal senso giova anche sottolineare come quest’ultimo risultato venga ottenuto da Viola in maniera pressoché del tutto indipendente dalla precisa conoscenza, da parte dell’osservatore, delle opere da lui di volta in volta liberamente citate, e questo proprio perché nei suoi lavori l’artista statunitense – nonostante la puntualità delle citazioni – intende più evocare l’atmosfera di un generico patrimonio visivo comune che possa essere da tutti identificato come ‘sacro’, che non rifarsi diligentemente (e men che meno filologicamente, in senso simbolico o teologico) a questo o quello specifico lavoro del passato.
Semmai, l’elemento davvero determinante nel favorire una coinvolgente fruizione trascendente delle opere di Viola (al punto che «lo spettatore è virtualmente incorporato nell’opera, nel senso che non si può limitare a guardare, ma è prevista una partecipazione attiva che presuppone un risveglio del corpo»)[18] è la dilatazione – talora persino estrema – del flusso temporale, a cui Viola è giunto dopo aver riflettuto sull’esempio offerto dalla musica, «arte del tempo» per eccellenza[19]. In The Greeting, ad esempio, grazie all’utilizzo di una complessa macchina da presa in grado di catturare 300 fotogrammi al secondo (contro i 24 abituali) «un evento che in origine durava quarantacinque secondi ora si dispiega come un’elaborata coreografia nel corso di dieci minuti»[20], cosicché lo spettatore è condotto a vivere intimamente l’esperienza che viene narrata nell’opera con una profondità emozionale davvero inconsueta, e dovuta sostanzialmente al fatto che l’estremo rallentamento finisce per attribuire una rilevanza essenziale ad ogni minima variazione dell’immagine nel corso del tempo[21]. In questo modo, lo spettatore viene come trasportato in uno spazio altro, perché – spiega significativamente lo stesso artista – «quando cominciamo a rallentare il tempo, avvalendoci di questi strumenti tecnologici, oltrepassiamo automaticamente una soglia e ci allontaniamo dal mondo fisico per entrare in quello metafisico. Infatti, l’unico luogo al di fuori della tecnologia in cui sia possibile rallentare il tempo è la mente umana»[22].
Alcune esperienze recenti: Piotr Piasta, Davide Coltro, Pier Paolo Patti
I due esempi citati sono davvero torreggianti nel panorama dell’arte più tecnologica che guarda al senso del sacro, ma non sono affatto episodi così isolati quanto si potrebbe credere. Al contrario, essi possono essere considerati semplicemente come la punta più avanzata e riconosciuta di uno scenario assai vivace e variegato, che indubbiamente merita di essere meglio conosciuto.
Si potrebbe ad esempio partire, per proporre l’analisi di qualche emergenza recente, dal lavoro dell’artista polacco Piotr Piasta, che nel contesto di una più ampia ricerca sul tema della memoria si sofferma spesso sui momenti di ritualità collettiva, dei quali volentieri riporta nei suoi video – con notevole capacità di suggestione – anche la componente sonora. Particolarmente poetico è May devotions to the Blessed Virgin Mary (2016)[23], nel quale il rito della preghiera mariana cantata quotidianamente nei campi – alla fine della giornata di lavoro – dalle contadine polacche viene in qualche modo trasfigurato dalla scelta dello split screen, che mostra a destra i visi delle donne intente ad invocare la Vergine e a sinistra riprese bellissime, lievi e pausate di fiori di campo dolcemente illuminati dal sole, mossi dal vento e percorsi dalle formiche. A fungere da cerniera tra i due lembi del video è il canale audio unico che riproduce la cantilenata preghiera delle donne, e che dunque da una parte – a destra – accompagna sincronicamente e per così dire ‘naturalisticamente’ i movimenti dei loro volti, dei loro occhi e delle loro labbra, mentre dall’altra – a sinistra – finisce invece per assurgere ad emozionante commento extradiegetico della bellezza discreta di un microcosmo apparentemente residuale (se non addirittura insignificante) che si fa invece tramite di un commovente momento epifanico.
Un altro esempio assai poetico negli esiti, e allo stesso tempo interessantissimo per il carattere particolarmente avanzato e sperimentale della tecnologia messa in gioco, è quello delle opere di Davide Coltro, artista veronese – ma ormai milanese d’adozione – che da molti anni è impegnato in una ricerca acuta e teoricamente consapevole sulla ‘pittura elettronica’. I suoi lavori, infatti, non afferiscono affatto – innanzitutto dal punto di vista tecnico – all’ambito della videoarte, sebbene di primo acchito il lieve movimento dell’immagine che li caratterizza possa far pensare ad un filmato rallentato alla maniera di Bill Viola; in realtà, invece, i suoi ‘quadri elettronici’ (o ‘systems’) non sono affatto schermi su cui scorrono le immagini in movimento che derivano da un ‘girato’, ma al contrario «Terminali Artistici Remoti»[24] che recepiscono in tempo reale, tramite una connessione Internet, le delicate e progressive evoluzioni randomiche – che generano infinite ‘icone digitali’ tutte pienamente autonome nella loro singolarità (e non semplici frames di un’unica opera narrativa di più ampia durata) – di un’immagine iniziale, che di norma è costituita da una fotografia scattata dallo stesso artista e che viene poi appositamente processata al fine di poter produrre «un flusso continuo di bit informativi da ricomporre dall’altro capo della rete»[25]. In particolare, tra tutti i lavori di Coltro si distinguono forse, per la capacità di creare un’atmosfera intimamente contemplativa grazie al raggiungimento di una sorta di inaspettato ‘sublime digitale’, i Medium Color Landscapes (dal 2013), paesaggi volutamente memori dell’estetica del pittorialismo fotografico di fine Ottocento e inizio Novecento che Coltro connota di volta in volta – e da questo deriva il curioso titolo della serie – con il ‘colore medio’ di quello specifico brano di paesaggio, ovvero con il tono risultante dalla media matematica di tutti i valori cromatici presenti nell’immagine di partenza. Ne derivano atmosfere straniate, in cui le tonalità lontanissime dalla realtà esercitano un effetto astraente capace allo stesso tempo di stimolare la sensibilità e di quietare l’animo, in maniera non dissimile dai fondi oro o blu lapislazzulo dell’arte medievale. Assai interessante è però anche Crux, sorprendente croce creata fisicamente attraverso la giustapposizione della componente hardware di diversi systems, ciascuno dei quali è poi attraversato immaterialmente dall’immagine di un cielo azzurro solcato lentamente dalle nuvole (per crucem ad lucem, come sottolinea lo stesso Coltro)[26].
Ancora più astratto, tanto da giungere talora ad esiti del tutto aniconici, è infine il linguaggio scelto per alcune sue interessanti opere a tema sacro da Pier Paolo Patti, poliedrico artista salernitano per il quale il video – che pure costituisce l’ambito privilegiato della sua formazione – è solamente una delle tante possibili opzioni espressive, peraltro spesso pensata fin dall’inizio per coniugarsi e armonizzarsi – in una logica di contrastato accostamento e di equilibrata intersezione – con oggetti dall’evidente ‘vissuto’ memoriale e dalla fisicità particolarmente pronunciata. Tra i vari lavori di Patti[27], il più interessante ai fini dell’analisi che qui si è cercato di impostare è forse Skèpsis, complessa installazione multimediale nella quale viene inscenata una ben strana Ultima Cena, in cui i commensali sono rappresentati da schermi di computer e televisioni molto ingombranti e palesemente obsoleti, attraversati da impalpabili ed astratte immagini digitali e a propria volta poggiati sopra pesanti impalcature da cantiere che simulano la tavola su cui la cena si svolge[28]. Sin dal suo titolo, l’opera testimonia evidentemente il carattere – appunto – ‘scettico’ e ‘dubbioso’ dell’intensa ricerca esistenziale di Patti, che da non credente si interroga sui temi evangelici in un’ottica dichiaratamente laica; eppure, guardando il coraggioso video dell’artista campano – che su un audio che fa pensare al ‘rumore di fondo’ dell’universo alterna immagini vagamente figurali ad inserti simbolici e addirittura a sezioni totalmente optical – non possono non emergere trasalimenti e domande sul senso che fanno pensare alla inesausta ricerca umana dell’infinito. Qualunque siano il nome e l’identità che a quest’ultimo si intendano dare.