Abstract
Nella sua efficacia epistemologica, il concetto di “surmodernità” (Augé 1992) espone l’antropologo a un sempre maggiore sforzo di comprensione della complessità umana e quindi simbolica, che sembra urgente chiarire soprattutto in riferimento ai cogenti processi culturali in atto: su tutti, quello della transizione digitale e, ancora più intricato e ambiguo, lo sviluppo del rapporto tra umano e postumano. D’altra parte, non vi sono dubbi sul fatto che il nostro “tradizionale” rapporto con lo spazio, il tempo, la materia e più generalmente il sensoriale stia cambiando in maniera sempre più veloce; più evidentemente da quando, almeno, l’online diventa la nostra ombra e più di essa, letteralmente (in)seguendoci nelle tasche di gonne e pantaloni sotto forma di smartphone ed esponendoci a una condizione di iperconnessione il cui carattere precipuo è rappresentato da una ipertrofia di dati e informazioni che Byung-chul Han chiama Infocrazia (Han 2021).
Sullo sfondo delle articolazioni di ciò che, meno ottimisticamente rispetto ad Han, definisco “regime digitale”, si staglia, a mio avviso, il ruolo decisivo dell’immagine come marcatore simbolico e temporale e catalizzatore nella produzione dei nuovi immaginari e delle nuove ideologie e subculture che in essa paiono sintetizzarsi, condensarsi e affermarsi. Il contributo, pertanto, intende chiarire il ruolo dell’immagine, all’interno dell’ecosistema digitale, rispetto al farsi del senso comune e addirittura dell’atteggiamento politico, con un focus particolare sulla condizione del lavoro agile, fra i cui gangli innumerevoli individui patiscono le più esecrabili condizioni professionali.
In its epistemological effectiveness, the concept of “surmodernity” (Augé 1992) exposes the anthropologist to an ever-increasing effort to understand human complexity and, therefore, symbolic complexity, which seems urgent to clarify, especially concerning the pressing cultural processes underway: foremost among them is the digital transition and, even more intricate and ambiguous, the development of the relationship between the human and the posthuman. On the other hand, there is no doubt that our “traditional” relationship with space, time, matter, and more generally the sensory is changing at an ever-accelerating pace; this has become more evident since, at least, the online world became our shadow and, more than that, literally (in)following us in the pockets of skirts and trousers in the form of smartphones, exposing us to a state of hyperconnection characterized by an hypertrophy of data and information that Byung-chul Han refers to as infocracy (Han 2021).
Against the backdrop of the articulations of what I define, less optimistically than Han, as the digital regime, I believe the decisive role of the image stands out as a symbolic and temporal marker and a catalyst in the production of new imaginaries, ideologies, and subcultures that seem to synthesize, condense, and assert themselves within it. Therefore, this contribution aims to clarify the role of the image within the digital ecosystem regarding the formation of common sense and even political attitudes, with a particular focus on the condition of agile work, where countless individuals suffer the most abhorrent professional conditions.
Keywords:
Netnografia, Regime digitale, Immagine, Iperconnessione, Propaganda
Netnography, Digital regime, Image, Hyperconnection, Propaganda
Metaforicamente salvifico, che anche Padre Pio sia sbarcato su Tik Tok è invero fatto che – pure nel suo quasi implicito portato umoristico – dovrebbe quantomeno evocare prudenza[1]. L’ambito religioso stricto sensu, in effetti, viene generalmente ricevuto come una dimensione monolitica, intrinsecamente refrattaria al cambiamento, l’ecosistema digitale, bulimico di linguaggi, non risparmia proprio più nessuno. Se non è evidentemente questa la sede per soffermarsi su una dissertazione di natura teologica intorno alle vicende comunicative che coinvolgono lo stato della fede religiosa, è però possibile sviluppare qui alcune riflessioni sui caratteri sociali di una surmodernità, parafrasando Marc Augé, che sta pesantemente intaccando il nostro rapporto con lo spazio, il tempo e i caratteri dell’esistenza stessa attraverso le prerogative di quello che chiamo “regime digitale”, rispetto al quale precipuamente l’immagine riesce e rivestire il compito di riferimento e grimaldello perfetto nella struttura della sua azione persuasiva. A tal proposito, nelle righe che seguiranno si proporrà, in grande misura attraverso il metodo “netnografico”[2], una storicizzazione dello stesso attraverso le immagini più detonanti e dalla risonanza massima nella metabolizzazione dell’evento cui riferiscono; ci si soffermerà, infine, sulla condizione di alcuni lavoratori del digitale, pressurizzati da una gestione asfittica del proprio tempo.
Dire “regime digitale”: l’immagine tra valori e disvalori
Nell’economia di questo contributo, l’espressione “regime digitale” vuole indicare – ai sensi della stessa definizione classica di “regime”[3] – una condizione di esistenza della società in cui la struttura organizzativa – quindi gli apparati gestionali, politici e della trasmissione del sapere – che la garantisce risulti non banalmente fondata ma pesantemente influenzata, nei suoi gangli, dalle trame comunicative ingeneratesi nel seno dell’ecosistema digitale, il cui carattere precipuo va riconosciuto in una ipertrofia di informazioni, nozioni e dati intorno ai quali si costruisce il sentire comune e, non di rado in seconda battuta, la progettualità politica. Ciò detto, va precisato che ciò a cui ci si riferisce è una condizione paradossalmente apolitica (o un “anti-regime” politico), in cui la pratica politica viene da un lato bypassata e costretta a “inseguire” il fatto digital-comunicativo, magari attivandosi per una sua conferma o smentita, come vedremo più avanti, e dall’altro riaffermata ed enfatizzata nei linguaggi e nei codici della comunicazione che offrono strumenti formidabili per le finalità della propaganda, immagini in primis, risultandone in un certo modo invalidata perché destituita della sua posizione orientativa o, peggio, declassata a politica-spettacolo. V’è quantomeno da sospettare, infatti, che l’entropia mediatica di questi ultimi anni abbia giocato un ruolo più o meno incisivo rispetto alla generalizzata apatia politica che sempre più diffusamente registriamo.
Maneggiare un concetto come quello di regime impone, fra l’altro, una valutazione che dia conto della sua complessità di fenomeno storico, il cui dispiegamento sia quindi situabile su un piano diacronico in cui riconoscere – o almeno ipotizzare – un principio di datazione.
Se l’attentato dell’11 settembre 2001 assurge quasi di diritto, per la straordinarietà delle dinamiche e per quella di chi ha coinvolto, a data spartiacque nella storia del mondo contemporaneo, è grazie alla celebre foto dello schianto dei Boeing sulle Twin Towers (fig. 1) ch’esso ottiene di fossilizzarsi nell’immaginario occidentale consentendo il costante richiamo ai nemici dell’Occidente per il tramite visuale-simulacrale; non mancò la determinazione emozionale, com’è invece evidente in The Falling Man, altrettanto iconico scatto catturato dal fotografo di Associated Press Richard Drew, che immortalò la caduta di un uomo da una delle due torri avvolta dalle fiamme (fig. 2).
Fra i più significativi precedenti dell’assunzione dell’immagine come simulacro anti-ideologico c’è un nome: quello di Alan Kurdi, bimbo curdo di appena 3 anni ritrovato nella spiaggia di Bodrum, in Turchia, il 2 settembre 2015, dove trovò la morte nel tentativo di fuggire, assieme alla sua famiglia, dalla Siria verso l’Europa (fig. 3). Nel suo paese la morte già lo attendeva, probabilmente, per mano degli attacchi dell’ISIS.
L’eco mediatico di un’immagine così cruda e straziante, per la cui scelta mi scuso e che fece rapidamente il giro del mondo grazie alla comunicazione digitale, fu incredibile, e la vicenda di Alan – sintetizzata in una foto così devastante – divenne il simbolo della crisi umanitaria che travolse il Mediterraneo mettendo sotto scacco i potenti della terra, infiammando gli apparati di informazione rispetto alla questione dei rifugiati siriani in Europa e portando il primo ministro del Regno Unito David Cameron ad ammorbidire la sua linea inflessibile sull’accoglienza: «non è sufficiente che il mondo rimanga scioccato, lo choc deve essere accompagnato da un’azione», sostenne affidando le sue parole al «The Guardian»[4]. La trasmissione indefessa di un’immagine, al netto dei risvolti macabro-morbosi, produce quindi un generalizzato incremento della consapevolezza che solo in seconda battuta intercetta l’impalcatura politica, di norma chiamata a garantire quelle condizioni che la realtà disarticola e nuovamente anticipata, nella loro esegesi, dalla comunicazione digitale.
A ben vedere, il 9 marzo del 2020, data dell’annuncio del lockdown da parte dell’allora premier Giuseppe Conte, può essere assunto come terminus post quem del nuovo corso nel quale apparati di comunicazione e società si trovano a convivere amalgamati e stritolati nel nome di una informazione senza tregua, caotica e famelica. La gestione pandemica, infatti, ha probabilmente sancito il definitivo radicamento antropologico dell’utenza nell’era digitale, allora stritolata in un tunnel della “dipendenza-da-aggiornamento” che, complice la compromessa socialità e l’obbligata permanenza domestica, irrorava le sue sinapsi col mondo esterno attraverso il rubinetto socialmediale. In particolar modo, il ruolo della comunicazione:
«è stato esaltato in particolare dalle condizioni di elevata incertezza, dall’assenza di conoscenze precise relative al nuovo agente patogeno e dalla conseguente scarsa efficacia che la razionalità medico-scientifica ha potuto esprimere in termini di risk assessment e di risk management, con dirette conseguenze sulla percezione di insicurezza da parte dei cittadini e sulla disponibilità di riferimenti oggettivi per il decisore politico»[5].
La fenomenologia pandemica, inoltre, consente di disporre di un primo macro-esempio di come la vasta utenza abbia appreso tanti dei meccanismi che regolano e hanno storicamente regolato il mondo principalmente attraverso i canali di comunicazione digitale come i social network, serbatoi in perenne evoluzione semantica, e, generalmente, le reti informative che negli smartphone offrono le notizie del giorno con una quantità inimmaginabile di concetti fino a quel momento sconosciuti al fruitore, che li “maneggia” senza una coscienza del loro peso reale e del loro carattere intrinseco; mediante il facile accesso, al contrario, alla loro evidenza immaginifica e numerica spesso decontestualizzata o arbitrariamente utilizzata. L’utente, incalzato da vere e proprie ondate di notizie e pillole pronte all’uso, preconfezionate e raramente scevre di coinvolgimenti tendenziosi, apprende (male e alla rinfusa) il funzionamento di tanti meccanismi medici, politici, sociali ed economici, riferibili a una “storia del mondo” complesso, di cui prima ignorava le sfumature o non considerava neppure l’esistenza, così ottenendo di potersi schierare facilmente – anche perché pesantemente incalzato – secondo categorie di comodo generate dall’ecosistema epimediale per polarizzare il dibattito e soffocare la varietà sintetica del confronto. Epimedia, anagramma di epidemia, è precisamente il titolo di un saggio di Angelo Turco – per esteso Epimedia. Informazione e comunicazione nello spazio pandemico – in cui il docente emerito di Geografia tenta un’analisi delle strutture mediatiche durante lo sviluppo dell’epidemia da Covid-19 e della sua gestione, da cui è appunto scaturita “epimedia”, ovvero la modalità peculiare con cui i mezzi di informazione e comunicazione, sia tradizionali che digitali, “trattano” la notizia una volta che il palinsesto mediatico abbia individuato e sia stato monopolizzato da un tema dominante (Turco cita, giustamente, il discorso migratorio come momento delle “prove generali”, per così dire, della fenomenologia epimediale)[6].
Solo con la pandemia, effettivamente, in occasione della quale “epimedia” si manifesta in una prima forma compiuta, si comincia ad avere contezza della bulimìa immaginifica che orienta le nostre possibilità di ricezione dei fatti e delle dinamiche che si sviluppano giorno dopo giorno in una cronistoria visuale di grande impatto, dalla quale emergono significativi esempi. Come si ricorderà, lo storytelling pandemico si fa cominciare con la foto più forte dell’evento, vero e proprio simulacro topico: quella dei camion che il 18 marzo del 2020 trasportavano fuori da Bergamo le bare delle vittime del coronavirus, particolarmente devastante nella città lombarda (fig.4).
La risonanza dello scatto, che fece il giro del mondo, fu tale che la stessa data venne scelta come rappresentativa della “Giornata nazionale in memoria di tutte le vittime della pandemia da coronavirus”, secondo un testo di legge approvato nel 2020[7]. Solo qualche tempo fa, la stessa foto è risultata coinvolta in un cortocircuito interpretativo a cui non è raro che il regime digitale esponga, in grado com’è di ridiscutere o minare assetti apparentemente incorruttibili e inficiare l’integrità di fatti e personaggi[8].
D’altra parte, la trasmissione quotidiana, minuto per minuto, dell’enormità quantitativa e qualitativa della tragedia umanitaria pandemica ha correttamente posto l’accento sulla condizione dei medici e del personale sanitario, che hanno direttamente inciso sull’ipertrofia immaginifica documentando la gravità della situazione nei reparti ospedalieri e nelle RSA (fig. 5). «Le immagini servono a responsabilizzare»[9], si legge chiaramente, e in quest’ottica è un tripudio di contenuti cinematografici sul racconto della pandemia.
Una questione cardinale a mio avviso posta dallo stato di regime digitale, che lo rende differente da qualsiasi precedente sistema di gestione sociale, inerisce alla presunta cabina di regia, che a ben vedere è irriconoscibile poiché il regime digitale si auto-alimenta, non promana da una sfera decisionale: si perpetua senza l’onere di doversi preservare, ri-producendo continuamente sé stesso attraverso dati e contenuti di ogni genere, che coinvolgono tematicamente e sovrastano lo stesso apparato istituzionale, che ne subisce le sue trame dovendosi quindi guardare dalle sue insidie. Nel premettere e scavalcare la pratica politica, il regime digitale la riafferma edulcorandola, smussando i suoi aspetti prima inaccessibili e soprattutto “umanizzandone” gli interpreti, ora cavie e vittime ora carnefici nel farsi dell’ispessimento digitale.
Un ulteriore imponente paesaggio fenomenologico e alla cui grammatica abbiamo avuto accesso essenzialmente attraverso i social media è quello ingenerato dalla recrudescenza della conflittualità fra Russia e Ucraina, nel 2022, e fra Israele e Palestina, a febbraio del 2024, con esiti catastrofici in entrambi i casi. Anche stavolta, come per la pandemia, protagonista assoluto diviene il palinsesto comunicativo (e informativo), capace di delineare, quasi autonomamente rispetto alle dinamiche reali, i giudizi via via opportuni per il sentire dell’opinione pubblica, tassativamente orientabile verso una posizione “nazionale” e per questo automaticamente congrua rispetto al problema. Al suo massimo grado di potenza, il regime digitale esplora i suoi più potenti strumenti di costruzione del consenso, coercizione e repressione del dissenso, polarizzando il dibattito e brutalizzando il confronto fino al livello del riduzionismo puerile, sul cui piano hanno la meglio la dicotomia buono-cattivo e la definizione di categorie di presunti “nemici della patria” o simili[10].
Il passaggio dalla guerra lampo alla guerra live, insomma, ha previsto sensibili ripercussioni sulla capacità ricettiva di cittadini e utenti, travolti dalle esigenze di un confronto “da stadio” dove, anzitutto, per esprimersi in chiave congrua e sui binari del buonsenso è importante sia esplicita una posizione partigiana. Durante l’inasprimento del conflitto russo-ucraino, infatti, il rubinetto socialmediale che alimenta la palude della propaganda ha fatto largo uso delle immagini (fig. 6), con esiti a volte persino demenziali, come si vede. Il caso a cui mi riferisco riguarda le immagini di un bombardamento andate in onda il 24 febbraio 2022 e, in verità, tratte da una scena del videogioco a tema bellico War Thunder, a cui si attribuiva la dignità di testimonianza di un brutale attacco russo al territorio ucraino[11], in ogni caso evidentemente vessato a sufficienza anche senza la strumentalizzazione posticcia delle nostre latitudini (fig. 7).
Sia nel caso russo-ucraino che in quello israelo-palestinese, eventi mediali straordinari, abbiamo infatti avuto prova della potenza dell’immagine in quella che Daniel Dayan e Elihu Katz hanno chiamato “televisione cerimoniale”[12], ovvero dedicata alla spettacolarizzazione di fatti dalla risonanza globale, rispetto alla quale – per il primo tornante bellico cui si fa riferimento – nuovamente Angelo Turco riconosce un “modello Zelensky”, ovvero quell’insieme di tecniche riconoscibili nelle “narrazioni persuasive” messe in atto dal presidente ucraino per denunciare in mondovisione la tragedia del suo paese e, com’è comprensibile, generare consenso intorno alla vicenda; a tal fine, Turco evidenzia una componente visuale che si impernia nell’archetipo del «personaggio giovane e vitale, eppure sempre più provato dalla guerra, […], col sigillo visivo di essere vestito sempre allo stesso modo (in particolare con la t-shirt verdino-marrone che rappresenta la sua divisa da campo)»[13] (fig.8).
In riferimento a simili processi, è possibile trovare importanti corrispondenze nelle tesi del filosofo Byung-chul Han, che più ottimisticamente parla di Infocrazia o “regime dell’informazione” per designare con un’espressione l’essenza della condizione antropologica all’interno della quale siamo immersi, storditi, per via digitale, da uno tsunami di notizie che, rendendocene ebbri, «travolge […] anche l’ambito politico e porta a pesanti distorsioni e rotture all’interno del processo democratico»[14]. Dapprincipio, Han ripercorre le tappe principali della parabola democratica, riconoscendo, ai suoi albori, il medium decisivo nel libro e nella cultura libraria, ancora in grado di fondare un discorso razionale perché imperniato su un confronto possibile, discorsivo e reciproco, tra agenti del pensiero attivi e maggiormente consapevoli; il contrario della moderna democrazia in tempo reale, secondo Pierre Levy. «La democrazia in tempo reale – scrive il teorico dei media – instaura un tempo della decisione e della valutazione continua»[15], che esclude o compromette irrimediabilmente riflessioni perfettamente razionali, ovvero «costruite a lungo termine: sono precedute da una riflessione che si estende al di là dell’istante, verso il passato e il futuro»[16]. La rapidità e la diffusione virale dell’informazione – che Han definisce “infodemia” – inficia il processo democratico della sua ricezione, di cui i media digitali catalizzati dallo smartphone monopolizzano modi e tempi sgretolando qualsiasi possibilità discorsiva con una comunicazione accelerata e frammentata; in una parola, affettiva, laddove consente che si impongano «non gli argomenti migliori, bensì le informazioni dotate di maggiore potenziale d’eccitazione»[17]. In sostanza, la comunicazione digitale provocherebbe una inversione del flusso delle informazioni, diffuse senza passare dallo spazio pubblico perché unidirezionali: prodotte in spazi privati e inviate a spazi privati, il che configura una comunicazione senza comunità principalmente rafforzata dai social media.
Nella semiotica del regime digitale, dunque, l’immagine ha un ruolo decisivo nel superamento della “digestione” della notizia o del suo messaggio, e si attesta come compiuta-in-sé. Compromettendone la metabolizzazione, l’infodemia, per il filosofo ”resistente alla verità”, non produce significati, ma continuo consenso-assenso. Il meme può forse rappresentare un valido esempio del potere di alterazione che la comunicazione digitale conferisce all’immagine, che diviene altro da sé auto-negando le sue stesse implicazioni. Basti pensare alla stessa guru delle imprenditrici e degli imprenditori digitali, Chiara Ferragni, la cui performance di Sanremo 2023 fece presto a vedere rarefarsi la sua verve di atto politico implicato dall’immagine di lei, di spalle, con indosso uno slogan eloquente: “pensati libera” (fig. 9).
Note netnografiche sulle persone oltre gli schermi
Ho cercato di tratteggiare, finora, un profilo generale (e, certo, generico) di quello a cui, definendo “regime digitale”, attribuisco non banalmente una asettica funzione di impalcatura strumentale e organizzativa che comporti la gestione “agile” dei servizi e della socialità, bensì un paesaggio semantico e valoriale all’interno del quale la società pensa sé stessa purché connessa, esistendo quindi nelle possibilità espressive ch’esso offre monopolizzando (e annientando) il tempo del confronto e imponendo tendenze, posizioni e non di rado schemi morali. Come ho tentato di sottolineare, soprattutto attraverso le immagini si estrinseca questa forza propulsiva, che grazie alle stesse sembra gettare dei ponti per ancorare i fatti a una memoria collettiva digitalmente data.
La connessione, per l’appunto, che è la linfa del regime digitale, ha un carattere implicitamente impositivo (restare aggiornato è un diktat infocratico, come detto più sopra) e si tratta di una condizione che, per mantenersi e per avere validità, ha bisogno di un sentire comune digitale: un atteggiamento la cui validità risulta intercondivisa e collettiva.
Mi preme una considerazione: a rigore, l’espressione settore digitale per designare una sfera professionale organica, con una fisionomia riconoscibile e ed efficacemente normata, quindi sostenibile, è essenzialmente errata o quantomeno insufficiente per contenere l’effettiva “gittata” della prestazione d’opera di carattere digitale, molto spesso avocata a figure dipendenti con differenti inquadramenti contrattuali o più semplicemente a lavoratori in nero e, in genere, figure che riuniscono in sé diverse mansioni – fra le quali quelle di carattere precipuamente digitale – ma senza il supporto di un disciplinamento professionale tutelativo e quindi un compenso relativo[18].
Si tratta, infatti, di un ambito difficilmente decifrabile, la cui eccessiva trasversalità e multiformità avviluppa i lavoratori digitali spesso stritolandoli e relegandoli nella condizione di meri esecutori materiali delle funzioni strumentali in forza al regime digitale: predisposizione dei servizi amministrativi a distanza, social media e web management, grafica, programmazione, ecc., per dirne alcune; com’è intuibile, l’impatto dei ritmi richiesti da simili contingenze nello stile di vita è talvolta estremo.
Il Giano bifronte dello smart work (o “lavoro agile”, da non confondere col “telelavoro”[19]), a ben vedere, viene introdotto nella legislazione dall’art. 18, co. 1, della l. n. 81/2017 «come misura volta a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro» sebbene, come nota Valentina Cagnin con riferimento agli aspetti temporali, «l’assenza di un vincolo di orario non vieta l’individuazione di una certa fascia oraria di reperibilità per l’opportuno coordinamento (e relativo controllo) del lavoratore»[20], quantunque nell’art. 9 si legga che le parti devono individuare «le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro». Ciononostante, la rete tessuta dall’ipertrofia connettiva a danno del lavoratore rende complicato, si capisce, tracciare un confine netto fra tempo del lavoro e tempo della persona, nei cui interstizi si annidano i germi più disparati, che ne coinvolgono diverse sfere[21]. Sfondo di questo è la condizione di immaterialità che permea il lavoro a distanza e le connessioni al suo interno, troppo spesso ricevuta e metabolizzata come una novità assoluta del presente digitale o una sorta di “spirito” della modernità ma, a ben vedere, già presente nel mondo aziendale. Come nota Marco Novella, infatti, “immateriale” può essere considerata anche la tradizionale impresa che offre sul mercato servizi (esempio: servizi di consulenza, di intermediazione, di brokeraggio) ottenuti per mezzo di fattori produttivi immateriali. Gran parte del settore terziario dell’economia ha tali caratteristiche. L’applicazione, nell’impresa, di tecnologie digitali amplifica tuttavia il fenomeno e, a ben vedere, lo diversifica anche dal punto di vista qualitativo, offrendo inedite prospettive di riflessione[22].
Casomai, continua, lo è in ragione dell’agire congiunto, nei processi produttivi di beni e servizi, delle tecnologie dell’informazione (applicazione estesa delle conoscenze digitali e dell’intelligenza artificiale) e delle tecnologie della comunicazione (interconnessione in tempo reale tra imprese, soggetti, e anche oggetti)[23].
La difficoltà di pensare ciò che è digitale e quindi ciò che serba è il primo grande scoglio per la comprensione della fenomenologia relativa e per il lavoratore che agisce al suo interno, sulla cui condizione ho cercato di concentrarmi attraverso una ricerca netnografica poi tradottasi, in una fase soltanto preliminare, in un contributo dal titolo Etnografia digitale ed etnografia del digitale: un racconto di esperienze tra lavoro, distanza, iperconnessione e identità, che ho avuto modo di presentare al Quarto Convegno Nazionale della SIAC – Società Italiana di Antropologia Culturale, tenutosi a settembre presso l’Università di Roma La Sapienza e intitolato Il ritorno del sociale.
L’intervento si sviluppa da una domanda di fondo, che mi sembra sintetizzare l’incontro delle difficoltà degli specialisti chiamati a interrogarsi sul tema e quelle dei lavoratori in senso stretto: quali sono le rappresentazioni del digitale che siamo in grado di fornire a noi stessi e alla società? All’ambiguità di simile sfera non sembra giovare l’apporto politico, anzi confuso e macchinoso o non sufficientemente in grado accompagnare utenti e operatori in un processo di transizione digitale che, retorica progressista a parte, presenta tante ombre quanti vantaggi[24]. Chiamati d’improvviso ad essere iperintelligenti, costretti ad avocare a sé più compiti, tanti lavoratori subiscono lo tsunami delle incombenze che gli apparati di comunicazione richiedono per garantire ad aziende e generici agenti nel mondo del marketing digitale una sovra-presenza.
I cambiamenti indotti dall’ipertrofia digitale mi sembrano quindi innestarsi su tre ordini: spaziale (lo spazio è negato o aumentato?), temporale (il tempo è ottimizzato, ma quello personale compromesso?), fisico (quale cultura materiale per l’uomo del futuro?) e identitario (quale coscienza del sé o di classe per i lavoratori digitali?). È evidente che nei meandri dell’impianto digitale agisca una sterminata ed eterogenea fascia di “lavor-attori” che, silenziosi, inscenano lo spartito della comunicazione e dell’iper-connessione. Si tratta di figure centrali per pensare il cambiamento in atto, perché più direttamente coinvolte nei ritmi dei processi di produzione mediatica, e quindi doverosamente facenti parte del campo di ricerca antropologico, da sempre attento a decifrare la complessità del mondo. Fra i pochi gestiscono la moltitudine, come mi sembrano classificarsi, vi sono alcuni di coloro che ho incrociato durante questo percorso di ricerca, dai quali ho appreso alcune delle tendenze in atto, in questa sfera, a livello psicologico individuale
La ricerca da me condotta, dunque, ha precipuamente fatto ricorso allo strumento dell’intervista e del questionario, rispettivamente atti a delineare un quadro qualitativo e quantitativo, coinvolgendo trenta persone e abbracciando un range anagrafico che va dai 23 ai 52 anni, per metà uomini e per metà donne, senza limiti geografici sebbene tutti cittadini italiani. Per la relativa esiguità numerica degli intervistati, riferiremo qui degli aspetti qualitativi della ricerca, quindi dei caratteri “fisiologici” del singolo lavoratore digitale. Primariamente, infatti, spicca la convinzione che il compenso non sia commisurato al numero di ore effettivamente lavorate, che per il 100% degli intervistati travalica i termini contrattuali; convinzione corroborata dalle problematiche di ordine psicologico (ma non solo) che una percentuale di poco inferiore dichiara, fra le quali si leggono: stress, ansia, alienazione, rabbia, senso di solitudine, pressione e burnout da impossibilità di disconnessione (causa sovraccarico informale di mansioni), attacchi di panico, mobbing, bassa pressione. Oltre allo stress elevato, presente in tutti i racconti, è il senso di colpa che merita una particolare menzione, perché ricollegato dall’intervistato all’impellenza della necessità della mansione digitale, descritta come capace di compromettere la gestione del tempo del lavoro, che invadendo quello “libero” ne altera profondamente la concezione e l’uso, spesso – si dice – “apaticamente” fruito. Sergio, 52 anni, social media manager e giornalista, definisce questa condizione “stato di presidio”, in cui il lavoratore si sente permanentemente chiamato a “stare in allerta” per fare fronte a eventuali feedback negativi fra l’utenza delle pagine et similia. Secondo Mauro, 35 anni, «troppo spesso, anche durante il tempo libero, arrivano comunicazioni relative ad attività da svolgere nell’orario di lavoro che rendono difficile staccare completamente», il che – come lamentato da altri – rende pressoché impossibile distinguere un confine fra lavoro e vita privata; Hilde, 33 anni, parla di insostenibilità del concetto di performare spesso riferito ai lavoratori digitali, a suo avviso più esposti ai mantra del correre e del fare senza interruzione, senza fermarsi mai, a dispetto dei danni psicofisici che ne deriverebbero: «corsa verso cosa?». Interessanti indicazioni sono poi giunte nel senso di una coscienza del sé riscontrabile nella categoria. A tal proposito, Valeria, 32 anni, racconta la difficoltà del lavoro a distanza in tempo pandemico per via della «mancanza di relazioni con i colleghi» in un contesto per lei estremamente “empatico”, carattere di cui riconosce la compromissione dall’introduzione della cosiddetta “modalità mista”, ancora in essere, che con l’allontanamento dallo spazio fisico della prestazione e del confronto fra omologhi sembra registrare una qualche forma di inibizione della coscienza professionale. Non meno precisamente, Sara, 32 anni anch’essa, sottolinea addirittura il risvolto “affettivo” del rapporto instauratosi con un profilo social aziendale che, contestualmente ad altre mansioni per cui riceve un compenso, cura gratuitamente al pari di una «creatura che ha visto crescere» come spazio implicitamente identitario; dove, quindi, ancorché pagina non personale, dalla tipologia di contenuti da lei creati emergano i suoi tratti individuali, le sue competenze e le sue attitudini. Riguardo a questo, vi è un ultimo aspetto che sembra pertinente affrontare, ovvero quello legato alle forme di tutela per specifici lavoratori del digitale, sconosciute pressoché a tutti loro. Una buona notizia riguarda, in tal senso, il riconoscimento della figura e della professione del social media manager, recentemente annoverati fra le categorie aventi diritto a un contratto nazionale di lavoro, grazie soprattutto all’attivismo e allo sforzo dell’ANSMM – Associazione Nazionale Social Media Manager, che a oggi riunisce qualche migliaio di iscritti.
In chiusura, appare indicativo notare come tutti gli intervistati (30/30) abbiano risposto affermativamente alla domanda “ti vedi ancora un lavoratore del digitale, in futuro? Perché?”, evidenziando un cauto ottimismo sia rispetto alle prospettive della loro condizione professionale che sugli evidenti vantaggi che il digitale offre radicandosi nel futuro del mondo; la promessa del successo, la comodità dello smart work e una forma di cieca fiducia verso il progresso tecnologico sembrerebbero soppiantare, in questa fase della loro vita lavorativa, le comunque considerevoli difficoltà che li accompagnano.
Conclusioni
Fino a qualche anno fa considerata una realtà parallela, altra rispetto a un “Noi” sociale e fisico, il mondo digitale è oggi parte integrante del nostro immaginario e dei suoi riferimenti storici e spaziali. Noi, dunque, evolviamo al suo interno e rispetto ad esso, anche se non assidui frequentatori dei suoi ambienti di riferimento. Sovra-struttura transcalare, ciò che ho definito “regime digitale” tentando di esplicarne alcuni meccanismi ha tra i suoi peculiari prodotti e strumenti l’immagine declinata in plurime forme, attraverso le quali si manifesta il suo potere persuasivo, di costruzione del consenso nonché di configurazione di una memoria digitale. Ho cercato, pertanto, di inscrivere i modi e i toni utilizzati nella loro fruizione in un piano di storicità della fenomenologia del regime digitale, tentando di supporre connessioni e scorgere caratteri peculiari; in ultima istanza, mi è parso corretto dare seguito a una prima ricognizione operata nell’ambito di un lavoro di ricerca etnografica sui lavoratori del digitale da me presentato in occasione del Quarto Convegno Nazionale della SIAC – Società Italiana di Antropologia Culturale, tenutosi a settembre presso l’Università di Roma La Sapienza e intitolato Il ritorno del sociale. In conclusione, quanto emerso in queste righe vuole semplicemente inserirsi, come minuscolo tassello, all’interno di uno sforzo conoscitivo necessariamente interdisciplinare e olistico in grado di contribuire alla comprensione del mondo che abitiamo.
Nicolò Atzori
(PhD, Università degli Studi di Sassari)
Bibliografia
- Cagnin V., Lavoro e diritto del lavoro alla prova della digitalizzazione, «Ricerche giuridiche», 8, 2, 2019, pp. 47-62.
- Dayan D. e Katz K., Media events. The Life Broadcasting of History, Harvard University Press, Harvard 1994.
- Han B., Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, Einaudi, Torino 2023;
- Kozinets R., Netnography: The Essential Guide to Qualitative Social Media Research, Sage Publications Ltd, 2019.
- Nespoli F., La comunicazione politica e istituzionale nella gestione della emergenza da Covid-19: una prospettiva di relazioni industriali, in D. Garofalo, M. Tiraboschi, V. Filì e F. Seghezzi (a cura di), Welfare e lavoro nella emergenza epidemiologica. Contributo sulla nuova questione sociale, ADAPT University Press, 2020.
- Novella M. e Tullini P. (a cura di), Lavoro digitale, Giappichelli, Torino 2022.
- Turco A., Epimedia. Informazione e comunicazione nello spazio pandemico, Unicopli, Milano 2021.
- Turco A., Geopolitica, informazione e comunicazione nella crisi russo-ucraina. La guerra, la pace, l’analisi scientifica, i media, Unicopli, Milano 2022.