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L’arte di Sandy Skoglund tra natura e artificio

Un’opera totale che unisce scultura, pittura, fotografia e digitale

Di Milena Cordioli 27/10/2024
Sandy Skoglund, Revenge of the goldfish, 1981

Abstract

Questo saggio monografico analizza alcune opere dell’artista americana contemporanea Sandy Skoglund, che, nel 2012, venne a presentare il suo lavoro presso l’Accademia di Belle Arti di Brescia SantaGiulia, in particolare l’opera Winter (“Inverno”) che era allora in fieri. Conclusasi dopo un lungo lavoro pluriennale, nel 2019, oggi l’opera si offre in tutta la sua complessità, gettando una luce sul significato della ricerca di quest’artista, il cui scopo principale è la custodia della memoria della visione, in una realtà in cui le immagini scorrono in modo sempre più veloce e inafferrabile.

This monographic essay analyzes several works by the contemporary American artist Sandy Skoglund, who, in 2012, came to present her work at the SantaGiulia Academy of Fine Arts in Brescia, particularly focusing on the piece Winter, which was still in progress at that time. Completed after a long, multi-year effort in 2019, this work now reveals its complexity, shedding light on the significance of the artist’s research, whose main goal is the preservation of the memory of vision in a reality where images flow ever more quickly and elusively.

 

Keywords:

Installazione, Fotografia, Realismo magico, Visione, Memoria

Installation, Photography, Magic Realism, Vision, Memory

 


L’artista americana Sandy Skoglund (Quincy, 1946), le cui opere si trovano esposte, sino al 2 giugno 2024, nella cornice storica del Palazzo del Duca di Senigallia, in una mostra antologica intitolata Sandy Skoglund – I mondi immaginari della fotografia 1974-2023 che ripercorre l’intera sua produzione a partire dagli anni Settanta, costituisce un caso unico nel panorama contemporaneo. Il suo linguaggio nasce da un processo creativo estremamente articolato, in cui le fasi del momento evolutivo del lavoro, dapprima la costruzione tecnica e materiale del set fotografico, a seguire la direzione registica dei “personaggi” messi in scena e il congelamento finale dell’immagine nello scatto, funzionano come tempi diversi condensati in un’unica opera, in cui memoria e visione si fondono.

Il risultato visuale dell’opera, che possiamo definire “foto-pittorico”, è l’esito finale del lavoro; tuttavia, a livello concettuale è fondamentale il fatto che la Skoglund realizzi delle effettive installazioni nello spazio, entro cui poi dirige le mosse dei suoi personaggi, come pedine che si muovono su una scacchiera.

Per lei anche il caso gioca un ruolo, poiché i protagonisti sono in azione, e il loro agire si blocca nel momento stesso in cui l’opera è chiamata a concludersi, immortalata nell’istante fotografico che arresta ogni ulteriore processo performativo.

Proprio per l’importanza attribuita all’intero processo che porta alla fotografia finale, la Skoglund ha documentato i suoi lavori in una serie di filmati[1], in cui si assiste alla realizzazione dell’opera ex novo, alla produzione completa da parte dell’artista, che è anche scultrice, di alcuni elementi, al suo allestimento, alla vestizione dei manichini e degli attori, con materiali di diversa natura, sino al momento conclusivo dello scatto fotografico “giusto” che cristallizza il divenire temporale di tutti questi atti ripresi in successione. La cristallizzazione del tempo è il tema attorno cui la sua opera si inserisce a livello concettuale ma l’artista attribuisce un valore estetico anche al processo e quindi al tempo in azione. L’opera è comunque la fotografia, risultato di una creazione immaginaria che unisce realtà e surrealtà.

«Senza la fotografia, l’arte concettuale si cancellerebbe dalla memoria degli uomini. In questa forma la mia arte può essere recepita come un dipinto, come una finestra aperta su un altro mondo. È questa d’altro canto la ragione per cui lavoro con la macchina fotografica. Il grande formato si adatta bene all’aspetto burlesco del mio lavoro»[2].

La costruzione classica dell’immagine, che segue i principi compositivi di un dipinto, fa sì che essa si imprima nella memoria, l’artista lo afferma chiaramente, senza questo processo di fissazione visiva il concetto stesso verrebbe cancellato e l’immagine scivolerebbe via in maniera superficiale dai nostri occhi oramai saturi. L’artista in primis detiene la memoria poiché si pone in relazione con l’arte del passato ed è ben consapevole del fatto che solo la creazione di immagini strutturate su un pensiero e su una ricerca di significato delle cose rappresentate, sulla relazione tra la figura umana e lo spazio, potrà imprimersi nella memoria di chi le osserva: la cultura visiva del presente che dialoga con il valore universale delle forme del passato è l’unica salvezza dall’oblio di un immaginario effimero. Le opere di Sandy Skoglund ci mostrano mondi dominati dalla fragilità dell’esistenza ma portatori di un senso non evanescente delle cose, come vedremo per esempio nei suoi Eyesflakes, gli occhi intrappolati nei cristalli di neve. In un’intervista del 2012 l’artista ha affermato:

«Sì, nelle fotografie finali del mio lavoro la figura è presente in un equilibrio precario. È come se l’essere umano si trovasse imprigionato, come un animale preso in trappola. Ma l’essere umano è intrappolato nella realtà. Sono d’accordo che l’arte del Rinascimento è un modello per me, in cui il centro di gravità e la prospettiva scaturiscono dall’essere umano»[3].

La sua formazione è accademica: studia pittura e storia dell’arte e solo in un secondo momento, negli anni Settanta, inizia a interessarsi alla fotografia. Racconta di aver imparato a fare fotografie attraverso tecniche per foto commerciali, con l’utilizzo di molte luci e di macchine fotografiche di grandi dimensioni, e di aver quindi poi applicato alle sue sculture questo principio di oggettivazione fotografica. Inoltre, afferma che la fotografia le permette di “dipingere la scultura”, poiché lo studio fotografico è simile al processo della costruzione pittorica: si tratta di porre in atto un attento controllo di ombre e luci, che è in sintesi il procedimento tecnico nella realizzazione di set fotografici, da cui la definizione staged photography.

Le opere degli anni Ottanta sono molto forti, sia per la violenza dei contrasti cromatici sia per la dimensione ansiogena di uno spazio aggredito da miriadi di oggetti o animali che riempiono le stanze in ogni dove, in cui è molto evidente l’ironia nera di ascendenza surrealista e la creazione di mondi “virtuali” in cui l’artista sembra sempre voler rovesciare l’ordine razionale del mondo, come se avesse tra le mani un’irriverente bacchetta magica. A proposito dei limiti imposti dalla visione magica del reale, nel 1932 Massimo Bontempelli, che teorizzava il Realismo magico in Italia, scriveva:

«Lo spirito magico è antitetico allo spirito tragico. Perché la magia è il parziale e temporaneo dominio che l’uomo può acquistare sopra forze ordinariamente a lui superiori […] La vittoria dell’uomo su alcune forze superiori è dunque in realtà, nella magia, soltanto apparente. V’ha di più: gli elementi superiori, apparentemente vinti dal mago, mantengono sempre, nell’azione magica, un tal qual atteggiamento ironico»[4].

Revenge of the goldfish (“La vendetta dei pesci rossi”) del 1981 (fig. 1), ad esempio, trasforma in un acquario la casa stessa, tutto diventa azzurro, il colore dell’acqua e i pesci vagano in una libertà solo apparente, poiché, a ben guardare, seguono le linee prospettiche di uno spazio che sembra chiuso in una scatola. In ognuna di queste immagini il contrasto cromatico intensifica il conflitto tra le pose dinamiche degli animali e il movimento bloccato dell’insieme, sottolineato dalla costruzione prospettica che sottende la struttura pittorico-compositiva dell’immagine, su cui si è riflettuto sopra e che determina una sorta di ordine nel caos e caos nell’ordine. Attraverso l’unione ossimorica di realtà e immaginazione, di concretezza e astrazione, la Skoglund costruisce la sua visione del mondo e cerca di esprimere un suo pensiero sulla condizione in cui si trova l’essere umano in un’epoca di grande complessità, sia nella relazione con gli altri esseri viventi che con la natura.

«Le mie immagini appaiono come sogno agli altri, non a me […] Non considero il mio lavoro in relazione diretta con il Surrealismo. Credo piuttosto che riguardi la condizione di contrasto e complessità che oggi caratterizza gli Stati Uniti. No, non penso a queste immagini come sogni. C’è un solo elemento che somiglia al sogno, “l’invadenza”. Le mie immagini presentano una componente realistica e un’altra irreale che, invadendo la realtà, interferisce con essa»[5].

Nelle opere degli anni Novanta la Skoglund inizia a utilizzare il cibo, come materiale nelle sue installazioni e ciò potrebbe far pensare a una ripresa delle tematiche care alla Pop Art americana, in realtà l’artista rimane coerente con il suo linguaggio e l’elemento alimentare viene trasformato in preziosa trama pittorica, che si astrae dalla sua organica mollezza, per concretarsi in una materia solida e brillante.

A proposito dell’utilizzo dei cibi l’artista spiega come nel suo lavoro si trovi alla ricerca costante di un senso che superi quello comune: sceglie, infatti, cibi tipici del consumo quotidiano in America, dal bacon alle patatine che si usano per accompagnare i cocktail nelle feste. E che cosa c’è di più banale dei popcorn? Nel 2001 realizza l’opera Raining Popcorn (“Piovono Popcorn”); questo lavoro le è stato ispirato da una notizia locale: il ritrovamento negli Stati Uniti di popcorn realizzati in ceramica e risalenti a circa 2000 anni fa, proprio come si trattasse di cristalli, forme minerali rimaste immobili nello scorrere del tempo storico. 

Una suggestione che la Skoglund trasforma in un’immagine poetica, dominata dal candore dei chicchi/fiocchi di mais. L’immagine di una natura cristallizzata è al centro delle ultime opere di Sandy Skoglund, in cui si ravvisa un passaggio dagli spazi chiusi delle stanze agli spazi aperti della natura.

L’artista aveva portato all’estremo questo tentativo (che rivela, del resto, il suo amore per la scultura) di intrappolare la materia molle del mondo, in particolare quella del cibo, in un’opera del 1992, intitolata Spirituality in the Flesh (“Spiritualità nella carne”) (fig. 2). Il titolo è già una dichiarazione d’intenti: cercare lo spirito nella materia. In questo caso ha dovuto lottare con il tempo nel vero senso della parola: la carne tritata, che riveste sia il manichino sia lo spazio in cui si trova (pareti e pavimento), si deteriora in brevissimo tempo e il suo colore perde la tonalità rosata e finisce per scurirsi; la carne invecchia, non lo spirito, sempre incorruttibile nel suo eterno presente. Ancora una volta, la rappresentazione di tale sospensione del tempo in un momento di perfette e magiche armonie è affidata alle forme e al colore; l’abito blu della donna contrasta con il rosso della carne ed è, da sempre, il colore della spiritualità, il manto della vergine nell’arte medievale. Inoltre, gioca sugli effetti materici: il tremolio della carne si arresta nelle pieghe plastiche dell’abito. Infine, l’ombra proiettata assolve al suo ruolo e colloca di peso, nello spazio magico dell’installazione, questa assurda e concreta presenza, che, come recita il titolo dell’opera, è carne e spirito insieme.

 


Il ciclo delle stagioni

 

«Vedo noi essere umani come qualcosa che si trova sospeso tra natura e artificio. Sento che nel mio lavoro tanto più si prende in esame la natura e l’artificialità, tanto più esse si trasformano l’una nell’altra»[6].

La mostra personale di Sandy Skoglund, tenutasi nel 2012 presso la Galleria Paci Contemporary di Brescia, aveva come scopo la presentazione in anteprima mondiale del suo ultimo lavoro, iniziato nel 2008, e ora concluso, intitolato Winter (“Inverno”). In mostra erano esposti i primi pezzi di quella che era destinata a divenire una grande installazione spaziale, come tutte le sue opere precedenti: una serie di ceramiche appese alle pareti, dalle forme geometrico-cristalline con al centro un occhio, definiti appunto Eyesflakes, letteralmente “Occhi/fiocchi”.

Queste strane forme, naturali e surreali al tempo stesso, sono create come sculture singole, già portatrici di un significato in sé stesse ma destinate ad assumerne uno più profondo e compiuto nell’insieme dell’installazione e nella fotografia finale che ne è risultata nel 2019 in Winter (fig. 3). L’atmosfera congelata dell’insieme è imprescindibile per cogliere il significato ossimorico di questi Eyesflakes, in cui la coscienza (l’occhio) non è appannaggio del soggetto (del resto, già gli occhi non sono solo umani, ma anche animali), ma si disperde nella meraviglia delle molteplici forme del reale, simboleggiate dal cristallo. 

L’artista parte da una base scientifica per rielaborare in chiave fantastica questo elemento naturale: il fiocco di neve, che ha la forma “matematica” di un cristallo ma, a differenza dei minerali o delle pietre, è fatto di acqua; esprime quindi la fragilità, pur nella durezza geometrica della sua forma (è un’immagine ossimorica, in quanto, come dichiarato dall’artista stessa, nel lavorare a questi “occhi di neve” percepiva il terrore e la bellezza di congelare la coscienza in forme cristalline). Questo è il contrasto che affascina la Skoglund e che lei, come dichiara, intende poi ampliare all’opera nella sua totalità visiva. La tecnica è complessa: i fiocchi sono disegnati digitalmente, gli occhi sono tutti fotografati direttamente dall’artista; la ceramica finale nasce dal processo di unione delle due immagini, al computer, poi riportate sulla superficie lucida (smaltata) dell’oggetto-scultura (l’artista lo definisce una “foto-ceramica”) tramite la cottura in forno che fissa definitivamente l’immagine. Il processo di oggettivazione del soggetto nel mondo si compie in queste opere della Skoglund, che già con Spirituality in the Flesh, ad esempio, aveva espresso l’idea di una spiritualità catturata dalle cose, dalla “carne del mondo”, per parafrasare il pensiero del filosofo francese Merleau-Ponty[7], e aveva giocato sul contrasto materiale tra organicità e rigidità plastica; nel fiocco di neve il contrasto passa dalla materia alla forma e l’ironia cede il passo a un senso cosmico di fragilità esistenziale. L’artista spiega così l’inserimento dell’occhio nel cristallo:

«Sono alla ricerca della “coscienza nel cristallo”. L’idea del fiocco di neve si lega a quella dell’argilla per un comune senso di fragilità materiale. Ho fatto molti tentativi, si tratta di un lavoro molto lungo di ritaglio delle forme di ceramica che accolgono gli Eyesflakes. Il risultato è una sorta di foto-ceramica. Gli Eyesflakes rappresentano il mio unico sguardo sul paesaggio invernale: ogni forma è diversa e le immagini degli occhi vengono alternate e ripetute»[8].

Un unico sguardo, frammentato in cristalli dalle mille sfaccettature: gli occhi degli altri; questa è certamente l’opera più alchemica e magica realizzata dall’artista americana.

Il progetto sulle stagioni la Skoglund l’ha iniziato nel 2004. Il lavoro direttamente precedente a Winter è dedicato alla primavera e s’intitola Fresh Hybrid (“Fresco Ibrido”), portato a conclusione nel 2008 (fig. 4).

Il titolo parla chiaro: la frescura primaverile ci appare come qualcosa di ibrido e la contaminazione è quella tra il naturale e l’artificiale, i corpi umani e gli alberi, gli esseri viventi e le sculture-manichino. L’immagine si presenta molto surreale, “magrittiana” potremmo dire, e con Magritte la Skoglund è in perfetta sintonia quando parla di una “veridicità dell’immaginazione”. Il colore gioca sempre un ruolo essenziale per gli equilibri compositivi all’interno dell’immagine finale, spesso svolgendo una funzione di riassestamento rispetto alle pose funamboliche inscenate dall’artista. Lei stessa dichiara di mettere in campo una specie di fittizia casualità:

«L’immagine finale corrisponde alla creazione di un evento che coincide con il momento dello scatto fotografico, ma lo stile che uso è costruito prima e controllato: la cosa interessante per me sono i piccoli incidenti che succedono quando lascio gli esseri umani all’interno dell’installazione per fotografarli»[9].

La scelta dei materiali è sempre confacente all’espressione dei concetti:

«Come per l’inverno, così ho riflettuto su quale sia la prima sensazione che viene in mente pensando alla primavera: morbidezza; ho scelto perciò materiali soffici e oggetti familiari: i pulisci pipe che si usano per fare i lavoretti-laboratori. L’idea dei pulcini per esprimere morbidezza e familiarità. Ho preso i pulcini e mi sono chiesta il senso di questi oggetti: chi li ha inventati? Perché ci sono? La loro funzione risale all’iconografia originale dei coniglietti, che si ritrova nel Rinascimento, soprattutto nell’arte celtica nordeuropea, per esprimere il rinnovarsi continuo della vita»[10].

Il rinnovamento della vita è legato al ciclo delle stagioni e al tema del tempo che ritorna su sé stesso: una stagione finisce, muore e poi rinasce in un processo di eterna circolarità. Il tempo che si muove quindi, eppure il momento dell’arresto nell’immagine foto-pittorica lo risucchia nell’immobilità dell’istante. La Skoglund infatti sostiene che la fotografia è il momento in cui il processo si compie poiché in essa riesce a prendere distanza dalla materia e a raggiungere il livello concettuale dell’opera, riuscendo a portare il tutto a una sintesi percettiva delle diverse dimensioni.

 


Il rapporto tra lo sviluppo temporale e l’istante fotografico

 

Sandy Skoglund non assembla digitalmente le sue immagini. Usa il supporto creativo digitale solo per la realizzazione di alcuni elementi nell’ultimo lavoro, eppure i principi compositivi dell’immagine e il rapporto tra la fotografia e la pittura ci fanno percepire i suoi mondi immaginari come delle vere e proprie creazioni “virtuali”.

«Spesso mi chiedono perché non realizzo le mie immagini al computer: cambierebbe il significato. Sapere che ciò che guardiamo è esistito davvero, modifica la nostra percezione dell’immagine. Si pensi ai film di Hollywood: se sappiamo che lo sfondo è costruito al computer la nostra esperienza della scena cambia; un’immagine costruita elettronicamente viene percepita in modo diverso rispetto a un’immagine fotografata. Di per sé non sono contro i computer come strumento, ma, per quanto riguarda il mio lavoro, l’immagine allo specchio dell’installazione ha un valore determinante»[11].

Le ultime due opere della Skoglund prese in esame suggellano questo principio, poiché estremizzano il rapporto conflittuale tra l’installazione e la fotografia (“l’immagine allo specchio”), le due diverse concezioni spazio-temporali che in esse sono implicate e, essenzialmente, la trasformazione della realtà in immagine, quando si rovescia nello specchio della visione.

La fondamentale importanza della specularità dell’immagine tra realtà e finzione, che acuisce la distanza tra l’installazione e la fotografia, si trova nell’opera Breathing Glass (“Respiro di vetro”), del 2000 (fig. 5), ossia la percezione di una realtà sottovetro e dell’assenza di respiro vitale. L’opera è stata realizzata dalla Skoglund solo due anni dopo Shimmering Madness (“Luccicante Follia”), con cui andremo a concludere questo viaggio tra le sue immagini, e si pone in continuità concettuale con essa, addirittura potrebbe esserne considerata uno sviluppo: ci sono gli insetti (questa volta libellule) “animati” sulla parete di fondo, che si muovono in contraddizione con le loro forme cristallizzate nel vetro; ci sono tre manichini ricoperti di elementi lucenti e sfaccettati, pezzi irregolari dipinti con diverse gradazioni di blu, come frammenti di uno specchio frantumato, accompagnati da una serie di omini dispersi sul pavimento (che diventa poi soffitto nella fotografia); infine, ci sono due esseri viventi (cristallizzati anche loro nel respiro di vetro) che sfidano la forza di gravità, con i piedi appoggiati al soffitto. Tuttavia, quest’ultima considerazione vale soltanto per l’opera fotografica, l’immagine finale che ribalta la realtà. Il rapporto tra la reale collocazione nello spazio dell’installazione dei due attori/modelli, guidati dall’artista, e la dimensione immaginaria della fotografia che rovescia la realtà sancisce la distanza tra le due diverse nature dell’opera di Sandy Skoglund. Alla presentazione del suo lavoro in Accademia, chiesi all’artista: “A proposito di Breathing Glass: l’idea di mettere i modelli viventi a testa in giù può essere un’anticipazione dell’idea di circolarità e perdita di gravità che ora sta portando avanti nell’opera Winter?”. La sua risposta è stata, testualmente: “La sensazione di cadere ed essere disorientati è corretta. Questo è sempre presente nella mia opera.”

La perdita di gravità in quest’immagine genera infatti una sorta di circolarità spaziale tra i manichini, che ci sembrano correttamente collocati ma hanno i piedi sospesi nel vuoto, e i due attori, che penzolano dal soffitto: lo spazio si dilata e la veduta della “stanza-scatola prospettica”, da cui parte sempre la Skoglund per le sue installazioni, è compromessa. Un altro aspetto sin dall’inizio di questo percorso individuato come essenziale è proprio la ripresa della prospettiva in chiave straniante.

La fotografia funziona allora come uno specchio magico che ribalta la realtà e non si limita a riprodurla, ripete l’antica metafora dello spazio virtuale della rappresentazione pittorica. Per la Skoglund la fotografia può essere percepita come una finestra oppure come uno specchio, in ogni caso, ha un ruolo essenziale nell’età contemporanea, poiché è usata per la creazione di immagini che rispecchiano la nostra relazione con il mondo, come in passato avveniva per mezzo della pittura. Il tempo si arresta nella dilatazione dello spazio che si fa immisurabile e la fragilità della condizione esistenziale, espressa dal vuoto gravitazionale, si cristallizza di contro in forme plastiche e lucenti.

Alla domanda sulla cristallizzazione della forma teorizzata da Franz Roh[12] nel suo saggio del 1925 dedicato al Realismo magico, l’artista ha risposto in tali termini:

«Franz Roh era interessato al modo in cui il mondo fisico concreto costituisca una magica esperienza per l’essere umano. Mi sento allo stesso modo. Ogni oggetto, compresi i fiocchi di neve, è un riflesso della nostra coscienza. Come dici tu, la cristallizzazione della forma nel mio lavoro è un tentativo di fermare il tempo. Il mezzo della still photography fa questo naturalmente»[13].

Poco dopo, in relazione all’opera Breathing Glass:

«Sì, vedo l’effetto della presenza umana che entra momentaneamente in scena come un atto performativo finale. L’ingresso dell’essere umano in un ambiente cristallizzato, perfettamente organizzato è un disturbo. Per me, l’esaltazione finale nel mio lavoro è questa introduzione dell’essere umano in una realtà congelata, che rappresenta l’indifferenza della natura verso di noi»[14].

Shimmering Madness (fig. 6), è un’opera del 1998, esposta nel 2012 alla Galleria Paci di Brescia, in occasione della mostra personale dell’artista. Nell’allestimento la fotografia appesa dialogava con l’installazione tridimensionale esposta nella medesima sala, come recentemente avvenuto per la scelta espositiva dell’opera Winter a Senigallia. Questa modalità di esporre le sue opere, spesso attuata nelle mostre della Skoglund, pone in atto la relazione tra lo spazio immaginario della fotografia e quello concreto del lavoro scultoreo e spaziale. La particolarità di quest’opera è la presenza di elementi meccanici che si muovono sulla parete di fondo: una serie di farfalle che sbattono le ali e provocano quindi un rumore incessante. Si coglie da subito il netto contrasto tra la muta immobilità dei manichini e la rumorosa mobilità delle farfalle sullo sfondo. Le figure in bilico, sia le presenze reali (interessante è il modo in cui l’artista plasma le posizioni di questi corpi, trasformandoli in marionette tra le sue mani) sia le sculture, simboleggiano una condizione di precarietà, come se avessero perso le coordinate spazio-temporali del loro agire ed essere nel mondo. La follia del titolo è però luccicante, luminosa e sembra piuttosto un’insensatezza cosmica rappresentata dalle caramelle dure e zuccherose che rivestono i corpi e il pavimento. Con quest’opera l’artista voleva ottenere una sorta di iperstimolazione a livello di colori e immagine, che richiamasse al nostro tempo, lei stessa ha dichiarato di aver voluto generare un “black-out da sovraccarico”, per tale ragione le figure appaiono in bilico, come se si sentissero sotto-sopra. Nonostante questo caos evidente l’immagine finale, come sempre, trasmette un ordine, un bisogno ancestrale, necessario, di poter misurare una porzione di mondo, di realtà, nel caos degli eventi e nella sovrabbondanza delle immagini che popolano la nostra realtà contemporanea.

«[…] idea, tipicamente postmoderna, che la realtà stessa è in ultima istanza caotica e pericolosamente aliena per il nostro agire come esseri umani, e che è la nostra limitata percezione a permetterci di prendere in considerazione solo una porzione del caos e di andare avanti così con le nostre vite»[16].

 

Milena Cordioli

(IUSVE, Mestre e Verona)

 


Bibliografia

 

  • AA. VV., Sandy Skoglund. Magic Time, catalogo della mostra curata da G. Paci, Brescia 2008.
  • AA. VV., Sandy Skoglund. I mondi immaginari della fotografia 1974-2023, catalogo della mostra a cura di G. Paci e M. Trevisan, Danilo Montanari Editore, Ravenna 2024.
  • M. Bontempelli, Realismo Magico e altri scritti, a cura di E. Pontiggia, Abscondita, Milano 2006.
  • M. Cordioli, Poetiche dell’incantesimo. Dal Realismo magico alla pittura digitale, Dottorato in Beni Culturali e Territorio, Università degli Studi di Verona, Verona 2014.
  • G. Celant, Sandy Skoglund, Silvana Editoriale, Milano 2019. 
  • C. Larrain, Sandy Skoglund, «ZOOM», Parigi 1983, pp. 42-53.
  • M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989.
  • D. Paparoni, Il corpo parlante dell’arte. La nuova scena internazionale: linguaggi, esperienze, artisti, Castelvecchi, Roma 1997.
  • D. Paparoni, Sandy Skoglund. Conversazione con Demetrio Paparoni, «Tema Celeste: Arte Contemporanea», n. 69-70, luglio-settembre 1998, pp. 42-46.
  • F. Roh, Post-Espressionismo-Realismo magico. Problemi della nuova pittura europea, a cura di S. Cecchini, Liguori Editore, Napoli 2007.

 

Sitografia

 

https://www.sandyskoglund.com/ (consultato il 27 ottobre 2024).

https://www.pacicontemporary.com/artisti/skoglund-sandy-2/ (consultato il 27 ottobre 2024).

 

Le traduzioni tratte dall’intervista e dalla conferenza del 2012 sono dell’autore.

1)

In parte raccolti nel DVD "The camera’s view & Shimmering Madness Installation" (2005), S. Skoglund.

2)

S. Skoglund, in C. Larrain, «ZOOM», aprile 1983, in "Sandy Skoglund. Magic Time", catalogo della mostra curata da G. Paci, Brescia 2008, p. 2.

3)

Intervista telematica realizzata dalla sottoscritta nel 2012 e inserita come apparato nella tesi di dottorato M. Cordioli, "Poetiche dell’incantesimo. Dal Realismo magico alla pittura digitale", Dottorato in Beni Culturali e Territorio, Università degli Studi di Verona, Verona 2014.

4)

M. Bontempelli, "Limiti della magia, in Realismo Magico e altri scritti", a cura di E. Pontiggia, Abscondita, Milano 2006, p. 36.

5)

S. Skoglund, in D. Paparoni, "Il corpo parlante dell’arte", Castelvecchi, Roma 1997, in "Sandy Skoglund. Magic Time", cit., p. 2.

6)

S. Skoglund, in G. Foschi, "Sandy Skoglund. Mondi Ibridi", Ivi., cit., p. 5.

7)

M. Merleau-Ponty, "L’occhio e lo spirito", SE, Milano 1989, pp. 26-28.

8)

Citazione diretta di S. Skoglund tratta dalla conferenza tenuta dall’artista presso l’Accademia di Belle Arti di Brescia SantaGiulia, per presentare il suo intero percorso creativo, dalle origini al progetto di "Winter", in data 30 marzo 2012.

9)

Ibidem.

10)

Ibidem.

11)

S. Skoglund, in D. Paparoni, "Il corpo parlante dell’arte", cit., p. 2.

12)

F. Roh, "Post-Espressionismo-Realismo magico. Problemi della nuova pittura europea", a cura di S. Cecchini, Liguori Editore, Napoli 2007.

13)

Intervista telematica realizzata dalla sottoscritta nel 2012 e inserita come apparato nella tesi di dottorato M. Cordioli, "Poetiche dell’incantesimo. Dal Realismo magico alla pittura digitale", cit.

14)

Ibidem.