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Morphing Memory

Medialità Offloading ed Estetiche Artificiali

Di Sara Buoso 29/10/2024
Refik Anadol, Remember, Been There, Synthetic Memory, 2018 Data sculptures installation view Melting Memories, 2018, Galleria Pilevneli, Instanbul courtesy and copyright the artist.

Abstract

Nel contemporaneo, una riflessione sul virtuale impone necessariamente una discussione sulla memoria quale esperienza affettiva e metamorfica. Questo saggio affronta nello specifico, una discussione sul ruolo che la memoria assume nella progettazione di medialità artificiali, tenendo in considerazione le implicazioni etiche ed estetiche che tali configurazioni virtuali assumono in ambito artistico. Traendo dalla letteratura afferente i memory studies e considerando come la scuola pragmatista abbia intrattenuto un contributo con le proposizioni epistemologiche epigenetiche del
XX sec. secondo le proposizioni della filosofica Catherine Malabou (2019), questo studio indirizza una lettura neo-materialista e postumanista, interrogando il ruolo transitivo e intersoggettivo della memoria. Da queste osservazioni, il saggio riflette di un nuovo paradigma che nel superare la dicotomia soggetto-oggetto, considera come la relazione tra soggetto e dispositivi tecnologici suggerisca esperienze mnestiche offloading e della collettivita.’ Nel sostenere l’alleanza tra arti, tecno-scienze, e neuroscienze, il saggio tratta dell’opera dell’artista Refik Anadol, pioniere della strumentalizzazione di sistemi di intelligenza artificiale in ambito artistico, soffermandosi sulla neo-materialita,’ automatismo, progettualita’ plastica e grafica di una serie di opere. Questa analisi intende suggerire nuove cartografie metacognitive e mnemoniche secondo un’etica della metamorfosi ed un’estetica della simulazione.


In questo primo ventennio del XXI sec, il virtuale si è imposto quale frontiera privilegiata della sperimentazione e ricerca artistica, reggendosi sull’alleanza tra arti, neuroscienze, e tecno-scienze e imponendo nuove riflessioni sull’etica e l’estetica delle pratiche artistiche. Rivisitare l’etimologia del lemma ‘virtuale’ dalla poetica aristotelica secondo la quale ‘virtualità’ designa una forma pura di energia in termini di dynamis attività, o dalla filosofia scolastica per cui il termine ‘virtualis’ connota la forza fisica di un fenomeno in potenza[1], impone nel contemporaneo una riflessione derivata dalla teorie neo-materialiste[2] a rimarcare la sua necessaria ambiguità di ripensare il virtuale in contrapposizione con l’attuale (e il reale). La dicotomia tra virtuale e attuale è infatti di indubbia rilevanza per le pratiche artistiche computazionali e digitali contemporanee che intendono la virtualità un’ area e un territorio di ricerca costitutivo di forme innovative dell’espressione artistica. 

In virtù di questo assunto neo-materialista, questo saggio suggerisce come interrogarsi sul virtuale significhi necessariamente interrogarsi sul ruolo della memoria nella contemporaneità. Una tale posizione è confermata dalla teoria e dalla critica d’arte più recente, nello specifico in autori come Frank Popper che tra i contributi significativi volti a delineare una genealogia delle arti computazionali delle forme di espressione elettronica fino alle applicazioni AI (Popper, 2007), nel saggio, The Place of High-Technology Art in the Contemporary Art Scene, 2009, interpretando il lavoro dell’artista multimediale Roy Ascott, pone una questione significativa sulla differenza sostanziale che esiste tra interazione reale e telecomunicazione, introducendo così una questione fondamentale sul potenziale della memoria computazionale (Popper, 1993, p.67). Da un posizionamento diverso, lo storico dell’arte e teorico dei media Oliver Grau, in Virtual Art: From Illusion to Immersion, 2004, mentre suggerisce una lettura anacronistica che mira ad indagare il desiderio di una rappresentazione virtuale insito già nelle manifestazioni artistiche della classicità, avanza una definizione del virtuale quale tempio e teatro dell’della memoria (Grau, 2004, p. 231). Rivisitando nello specifico, i modelli culturali del tempio neoplatonico e del teatro della memoria di Giulio Camillo (1550) attraverso la lettura di Frances A. Yates (1966), Grau si pone in continuità storica con questi modelli, interpretando la progettualità e l’estetica dell’opera dell’artista Agnes Hegedues, Memory Theater VR, 1997, in virtù di una progettualità tecnologica e immersiva. 

Ma se il modello culturale del tempio e del teatro ben si applicano ad una riflessione critica sulle configurazioni che trattano dell’immersività, paradigmi tecno-estetici innovativi, forti di una nuova alleanza tra arte, tecnoscienze, e neuroestetica come nel caso degli strumenti e delle applicazioni mediali di intelligenza artificiale (AI), mettono in discussione la canonica distinzione tra soggetto e oggetto per interrogare in maniera transitiva e metamorfica la relazione tra l’esperienza, la materialità della memoria, e l’ apparato tecnologico che la supporta in maniera simulata e sofisticata. E’ questa una svolta paradigmatica che richiede considerazioni etiche ed estetiche in ambito artistico. 

La filosofa e accademica, Catherine Malabou in Morphing Intelligence. From IQ Measurament to Artificial Intelligence, 2019, sostiene come i fondamenti teoretici di questi paradigmi si possano rintracciare nel dibattito che ha visto le scuole di pensiero fenomenologiche da un lato, psicologiche dall’altro, confrontarsi nel XX sec, raggiungendo eventualmente un sodalizio trasversale tra fenomenologia e neuroestetica in virtù del contributo tecno-scientifico imperante che connota la rivoluzione digitale tra la fine del XX secolo e questo XXI secolo ancora in atto. Se fondamentale è in quest’ottica è il contributo posto da Henri Bergson in Materia e Memoria, 1896, al fine di rivendicare la condizione materica della memoria  traducendosi in riflessioni affettive e cognitive, la riflessione di Malabou si focalizza principalmente sulle possibili connessioni tra l’approccio pragmatista e sperimentale del filosofo e pedagogista, John Dewey, e l’epistemologia genetica dello psicologo e biologo, Jean Piaget, suggerendo un nuovo modello epistemico che tenga conto delle mediazioni e delle metamorfosi dell’intelligenza nel loro morphing storico (Malabou, 2019, p. xviii). Nello specifico, con l’obiettivo di superare le posizioni formaliste dei modelli epistemici imperanti nella filosofia metafisica, trascendentale, razionalista, e formalista, Malabou rivendica il ruolo fondativo dell’esperienza quale atto intellettivo ma al contempo pragmatico e creativo, traendo nei suoi scritti dai contributi di John Dewey in Art and Experience, 1934, e valorizzando le funzioni di accomodamento e adattamento quali fasi necessarie dello sviluppo cognitivo come discusso da Piaget, in Biology and Knowledge, 1971, per sostenere la funzione affettiva, metamorfica e plastica dell’intelligenza. Se queste affinità saranno oggetto di un ulteriore approfondimento in relazione al contributo di Malabou, la domanda che sottende questa indagine in questa fase è quindi: è possibile  pensare una funzione materica, affettiva, plastica, e metamorfica della memoria in virtù delle applicazioni dell’intelligenza artificiale? 

In ambito artistico, la filosofa e accademica Susanne Langer, in Feeling and Form. A Theory of Art, 1953, intuisce e articola la questione, rivalutando l’aspetto affettivo, emozionale, metamorfico, della memoria: 

Ricordare un evento è riviverlo, ma non nello stesso modo della prima volta. La memoria è un tipo speciale di esperienza, perché è composta da impressioni selezionate, mentre l’esperienza reale è un tumulto di immagini, suoni, sentimenti, tensioni fisiche, aspettative e reazioni minute e non sviluppate. La memoria vaglia tutto questo materiale e lo rappresenta sotto forma di eventi distinguibili. A volte gli eventi sono logicamente collegati, così che il semplice ricordo può datarli l’uno rispetto all’altro… Ma la maggior parte degli eventi vengono ricordati come incidenti separati e possono essere datati solo pensando in un ordine causale in cui non sono “possibili” se non in determinati momenti (Langer, 1953, p.263). 

Interrogando lo stato affettivo quale forma della memoria, Langer sembra suggerire nu nuovo modo di intendere le tecniche mnemoniche dell’ars combinatoria[3], riconoscendo la condizione eventuale e potenziale della memoria, una forma che evolutivamente si può giustificare in virtù del contributo in seguito indirizzato da Malabou in termini di epigenetica, un neologismo coniato nel 1940 dal biologo britannico Conrad Waddington per definire la branca della biologia molecolare che studia le relazioni tra i geni in termini di interazioni causali compresi i meccanismi di espressione e iscrizione del codice genetico (Malabou, 2019, p.61). Da un punto di vista artistico, si dovranno attendere le riforme digitali per discutere della intersoggettività e transitività di queste funzioni quando dall’illusione (vitalismo soggettivo e fondato sul regime della visione) si discutere dell’immersività (esperienza corporea, affettiva e intersoggettiva), contesto in cui emergono nuovi paradigmi estetici[4].

Nel saggio, Memory in the Digital Age, 2021, gli psicologi e accademici, Benjamin C. Storm e Julia S. Soares, discutono dell’impatto che le tecnologie digitali hanno imposto nella contemporaneità, nei confronti degli atti coinvolti nei processi di memorizzazione (umana) alterandone i ruoli e le funzioni specifiche. La riflessione verte su una distinzione necessaria che supera la classica dicotomia tra soggetto-oggetto per rivendicare il ruolo che l’apparato tecnologico e digitale impone in termini di memoria interna del soggetto stesso sostenendo strategie per supportare una memoria esterna attraverso l’utilizzo di dispositivi digitali (Storm, Soares, 2021, p.4). Sospendendo ogni questione etica, gli autori intuiscono e difendono la posizione che una tale distinzione implichi la condizione collaborativa dei processi di memorizzazione sia in termini relazionali che tecnici (ibid. p. 5). In altri termini, ciò comporta che il processo di immagazzinaggio delle informazioni non è necessariamente limitato alle strutture neurali del soggetto, ma la memoria si traduce in un atto a disposizione (ibid. pp.5-6). Una tale affermazione è fondamentale a pensare il ruolo transitivo della memoria in relazione alle potenzialità dei singoli apparati e dispositivi scelti, modificando la funzione di iscrizioni mnemoniche in atti metacognitivi secondo i quali non ha più importanza il contenuto o il segno impresso di una data informazione ma il luogo e la sede in cui le stesse informazioni vengono localizzate, salvate, e archiviate (ibid.pp.5-6). Ne sono un esempio, sostengono gli autori, alcune pratiche di offloading, ovvero pratiche di trasferimento dei contenuti in dispostivi mnemonici esterni come per il fenomeno diffuso di trasferimento e salvataggio di contenuti attraverso supporti di memoria fotografica esterni che riflettono di un importante valore mnemonico attraverso immagini che si rendono depositarie dei processi mnestici legati alla memoria autobiografica attraverso dispositivi digitali (ibid.p.17). Tali apparati e dispositivi si reggono su una funzione metacognitiva che supera i modelli e le architetture mnemoniche ancora fondate sulla distinzione tra soggetto e oggetto per pensare alla triangolazione che esiste tra evento, soggetto, e apparato nei termini di un’economia delle risorse che conduce qui a riflessioni etiche ed estetiche. Pur distinguendo tra i dati afferenti alla memoria quantitativa rispetto ad una memoria selettiva in relazione a questi dispositivi,  Storm and Soares suggeriscono una traiettoria radicale che non considera le pratiche di offloading in termini di oblio epistemico, ma ne valutano le funzioni interattive e sociali. Gli autori sostengono:  

In parte, la memoria collettiva riflette il processo dinamico attraverso il quale gruppi di individui ricordano e ricordano male insieme, con le qualità emergenti di ciò che viene ricordato che riflette gli schemi e le narrazioni del gruppo e il senso condiviso di identità che collega le persone attraverso il tempo e lo spazio. Internet, come mezzo di interazione sociale, ha avuto un profondo impatto sulla memoria collettiva, sia per quanto riguarda il modo in cui gli individui ricordano da soli, sia per quanto riguarda il modo in cui gruppi di individui ricordano insieme. (Storm, Soares, 2021, p.24)

La riflessione di Storm e Soares è di significativa rilevanza perché se nel transfer,  nella inscrizione, e nell’archiviazione digitale è indubbio assistere ad una perdita quantitativa, queste stesse modalità operative rivalutano l’aspetto intersoggettivo, collettivo, e creativo delle strategie mnemotecniche, imponendo modalità attive esplicabili in termini di metacognizione e rendendo attuale una riflessione sulla memoria collettiva in termini di virtualità. 

Quest’ultima traiettoria costituisce un argomento fondativo nelle pratiche immersive e più specificatamente in quelle pratiche che integrano strumenti legati all’intelligenza artificiale (AI). Se il caso si è imposto in maniera significativa nel 2014, con la diffusione del software Deep Dream, sviluppato da Google sulla base di criteri di selezione per similarità e dissomiglianze pensate sulla base di software per il riconoscimento delle immagini attraverso le reti neurali, a sua volta suggerito dallo studio di un team di ricercatori dell’Università di Toronto, Alex Krizhevsky, Ilya Sutskever e Geoffrey E. Hinton, nel 2012. La teoria si avvale inoltre, di un sodalizio che trova fondamento nelle scoperte computazionali e nella neuroestetica secondo le premesse discusse già a metà del XX sec, trovando una prima elaborazione teorica nell’ opera dell’informatico e scienziato cognitivo americano John McCarthy che così conia il termine ‘intelligenza artificiale’ in occasione di un seminario estivo presso il Dartmouth College nel 1956. Al presente, l’applicazione di studi sulle reti neurali nelle scienze computazionali e nello specifico nelle applicazioni deep learning, ha lo scopo di simulare le funzioni neuronali del progetto, in maniera intersoggettiva, epigenetica, e formativa. Trattasi di un contributo dall’impatto paradigmatico ed irreversibile nel contemporaneo. Secondo Malabou:  

L’intelligenza artificiale non è una tecnologia neutrale; è una tecnologia trasformativa, che sfida l’architettura dei sistemi informativi tradizionali e quindi determinando uno sconvolgimento totale dell’essere-nel-mondo. (Malabou, 2021, pag.146)

Al fondamento di questa scoperta tecno-scientifica epocale, Malabou rivendica il ruolo dell’affettività e dell’esperienza in termini epigenetici ed in relazione ai bias cognitivi soggettivi, ma sostiene parallelamente come la grande trasformazione che si è avuta negli ambiti della cibernetica, della computazione neuromorfica e delle reti neurali, siano fenomeni epocali che interrogando il potere dell’algoritmo, dei big data, e di una produzione e creazione automatizzate, impongono nuovi paradigmi epistemici (Malabou, 2019, p.150-151).

È questa la linea di ricerca perseguita dall’artista turco-americano Refik Anadol (1985, Istanbul) la cui pratica si regge su una sofisticata sperimentazione mediale che mira ad indagare non il rischio ma il potenziale strumentale e artistico dell’alleanza tra arte, neuroscienze, e intelligenza artificiale. Da premesse legate a sperimentazioni sul digitale e il virtuale, la ricerca dell’artista si focalizza sulle applicazioni artificiali dal 2017, con le opere Data Paintings, 2017, Interconnected CLT, 2018, e Macine Hallucinations, 2018.  Nello specifico, si rende evidente l’interesse da parte dell’artista, a delineare una bifurcazione sulle area di ricerca perseguite che se da un verso mirano ad indagare le potenzialità artificiali per la costruzione di un immaginario artificiale sostenibile con attenzione alla condizione atmosferica e paesaggistica fenomeni naturali esterni  come per l’opera Wind of Boston, 2017, per un altro verso si rivolgono internamente alla dimensione soggettiva ed esperienziale che connotando l’area di recente così definita: ‘Important Memory.’ Tra le opere in questione, tratteremo delle opere presentate per la mostra Melting Memories, 2018, ospitata dalla Galleria Pilevneli a Instanbul, mostra che mira a configurare virtualmente il potenziale latente, prostetico, simulativo, anamorfico, e metamorfico della materia della memoria secondo una cartografia metacognitiva.  In altri termini, la mostra si presenta come una visualizzazione grafica e plastica dei processi mnemonici, proiettando esponenzialmente il potenziale soggettivo in una dimensione materiale, metacognitiva, e mnemonica collettiva virtuale.

 

Nel citare le teorie pragmatiste di Dewey sul ruolo dell’esperienza e della memoria in ambito artistico, Anadol riflette di una percezione del tempo che differisce dall’azione intuitiva puramente soggettiva come per il fenomeno della durata nelle teorie bergsoniane, e definisce la stessa percezione del tempo quale atto metacognitivo traducendosi nella necessità di registrare, documentare e archiviare i ricordi secondo i termini di un materialismo mediale (dati) che nel complesso, informano un sistema di reti neurali determinando l’input di dispositivi artificiali. Anadol commenta: 

Come tutti noi, amo ricordare e parlare dei miei ricordi. Il concetto di tempo è strettamente collegato alla memoria. Siamo tutti consapevoli che il concetto di tempo ha una forte correlazione con la memoria. Sono sempre stato ossessionato dalla memoria, dal ricordo e dal life logging. Anche i dati sono una forma di memoria. Anche i like, i post, i commenti, le macchine che usiamo e il GPSa. Curiosamente, il concetto di memoria nel 21esimo secolo non si riduce solo al sistema cognitivo e neurologico umano. Ci troviamo in un contesto in cui interagiamo con le macchine (Anadol, 2019). 

Più ampliamente, tali osservazioni, afferma l’artista, informano una serie di domande, oggetto di indagine di Melting Memories. Secondo Anadol: “Come può essere usato un sensore cerebrale?”, “Come devono essere trattati i Big Data?”, “Come possono essere letti i dati trasmessi dal cervello?”, “Cosa si può fare con i dati di lettura?”. In mostra, tali riflessioni si esplicano nella presentazione di una collezione composita di data paintings e data sculptures affiancate a proiezioni di luce. E’ significativo riflettere su queste tipologie e questi neologismi coniati dall’artista. Anadol dichiara: 

Quando un’opera si riferisce all’architettura, la chiamo “scultura di dati”. Per le sue dimensioni e per il suo rapporto con la parete che crea lo spazio, esce da quello che chiamiamo un dipinto, con cornice e bordi. Penso che, per quanto riguarda la nostra percezione spaziale, un muro digitale di cinque-sei metri possa essere considerato una scultura. I lavori di pittura erano quelli su schermi digitali da 65”. In termini di dimensioni erano più accessibili. Mi considero la prima persona a usare la parola “data painting” nel 2016 poiché non abbiamo trovato nessun altro che abbia usato o ipotizzato questa parola. Il dato è una materia così liquida e viva che non pensavo fosse giusto avvicinarlo ad associarlo al pigmento. In questi lavori, il pigmento è ciò che è considerato un’esperienza quantificata, che allo stesso tempo ha le sue preoccupazioni come un dipinto. Mi è sembrato più appropriato utilizzare un nome ibrido (Anadol 2019) 

Per Anadol, data painting e data sculpture designano una maniera di intendere l’oggetto artistico secondo una modalità che riflette di una diversa percezione del tempo sulla base di funzioni metacognitive, ovvero si configurano della materialità di una collezione di dati a sua volta soggetti alle dinamiche di un flusso temporale evoluzionistico, poi manipolati in senso grafico, plastico e virtuale. Se questa concezione neo-materialista e transumanista trova un fondamento nella definizione di ‘immaterialismo’ posta dal filosofo e teorico dei media, Vilém Flusser nel saggio,  Immaterialism, 2012, il quale discute dell’emergere di un nuovo sistema di rappresentazione derivato da un materialismo costituito da dati, velocità e informazioni come visto nell’elettronica e nel calcolo, e caratterizzato dalla codifica e decodificazione delle forze nei sistemi di distribuzione (Flusser, 2012, pp.218–219 ) nell’ambito di pratiche computazionali, da un punto di vista teorico e strumentale, Anadol si discosta dalla logica numerica del calcolo che ha diversamente connotato i sistemi di programmazione, per apportare un contributo significativo in termini di osmosi, transitività, e trasformazione tra tecniche mnestiche di memoria soggettiva (offloading) a strumenti di visualizzazione di una condivisa memoria collettiva in ambito virtuale. Si aggiunge che la distinzione tra data painting e data sculpture e la scelta di presentare entrambi in Melting Memory, riflette in quest’ottica, di un importante e intenzionale interesse nei confronti delle soglie della percezione, insistendo sul limite tra visione e immersività, risultando una strategia prostetica che mira a decostruire cognitivamente il regime visuale per favorire un’esperienza corporea e metacognitiva, implicando questioni etiche ed estetiche oggetto di successive riflessioni. 

Ma soffermarsi sull’approccio neo-materialista e postumanista dell’artista, significa anche valorizzare la progettualità trasversale che informa la pratica dell’artista. Con la collaborazione dell’Universita’ della California dove l’artista si è formato come artista e ricercatore, il progetto trae da una serie esperimenti condotti con strumenti tecnologici avanzati forniti dal Neuroscape Laboratory a San Francisco, un centro neuroscientifico focalizzato sulla creazione tecnologica e la ricerca scientifica sulle funzioni cerebrali di individui sani e con disabilità. Nello specifico, la progettualità dell’artista consiste nell’archiviazione di una serie di dati legati alla memoria individuale, che attraverso sensori specifici, identificano e registrano i meccanismi neurali coinvolti nei processi di memoria a lungo termine piuttosto che a breve termine, mappando il flusso delle onde celebrali coinvolte in tali processi attraverso il sistema di controllo EEG (elettroencefalogramma) in un dato framework temporale. Se ordinariamente il processo EEG consiste di un codice di apprendimento e classificazione di visualizzazioni in serie temporali controllate, nella ricerca dell’artista ciò si traduce in una raccolta di dati che tra ricorrenza e ritmo, informano un algoritmo applicabile secondo geometrie frattali nella versione di Higuchi, costituendo una mappatura spettrale e una costruzione metamorfica attraverso una pipeline grafica modulare che informa gli artefatti data pantings e data sculptures

Nelle opere presentate per Melting Memories, Anadol suggerisce come una collezione di dati mnemonici possano essere soggetti ad una trasposizione e ad una metamorfosi dei modi di percepire a configurare la materia della memoria secondo una visione collettiva. Dalla registrazione dei bias e comportamenti individuali, alla resa grafica, all’utilizzo di dispositivi digitali e archiviali, le opere di Melting Memories sono da ritenersi attivazioni di memorie individuali al fine di configurare una nuova costruzione e architettura collettiva e istituzional attraverso interconnessioni anacronistiche per cui la distinzione tra soggetto e oggetto si fonde in maniera transumana. Il potenziale sensitivo, mappativo, e trasformativo delle opere in mostra, attivano un processo di reminiscenza a sua volta informando un processo che supera i limiti della memoria individuale per riconoscere come nel dispositivo mnemonico digitale e artificiale sia insito un potenziale prostetico, morfologico, metacognitivo, e metamorfico focalizzato su un’estetica della simulazione, del virtuale/reale, tra artificiale ed esperienza osmotica. Nelle parole dell’artista: 

In realtà è la reincarnazione della memoria, che in qualche modo, riesce a essere in grado di riportare in vita. Non posso dire di no, ma sono ben consapevole che siamo ben lontani dal dire sì. Per ora, tutto ciò che abbiamo sono memorie fotografiche che produciamo e condividiamo collettivamente come esseri umani (Anadol, 2019).

Le preoccupazioni etiche ed estetiche che suggeriscono le opere di Melting Memories superano ogni dubbio morale per suggerire un nuovo orizzonte condiviso di ricerca, trascendendo la dimensione fisica ed esperienziale individuale al fine di sostenere un potenziale condiviso e virtuale. Sembra questa essere una frontiera di ricerca sostenibile che Anadol sapientemente e sofisticamente articola nei confronti delle possibilità come affrontato per le opere successive, Mars Landscape, Mars AI Data Sculpture, Renaissance, Crypto Cube, Machine Memoirs – Cosmic Visions, Latent History. Quest’ultima osservazione è utile a giustificare il perché piuttosto che definirsi un artista AI, Anadol voglia definirsi un artista mediale (Anadol, 2019), un artista che nel rifiutare la dominante reggenza del ruolo gerarchico dell’intelletto, favorisce una proficua e prolifica relazione tra soggetto e apparato tecnologico, sostenendo il ruolo mediale della propria pratica artistica in virtù, nelle parole di Malabou, delle metamorfosi dell’intelligenza nel loro morphing storico ed epocale (Malabou, 2019, p. xviii). 

Da quest’ultima posizione si rendono quindi necessarie una serie di ultime considerazioni etiche ed estetiche in merito alla ricerca e alla pratica di Refik Anadol perché, citando Malabou, nelle opere presentate per Melting Memories, è fondamentale riflettere della differenza tra vita biologica e vita simbolica in termini di interconnessione e nello specifico, in relazione agli strumenti di intelligenza artificiale (Malabou, 2019, p.xvii). Secondo un più ampio spettro, Malabou sostiene che la relazione intermediale che sottende i campi della neurobiologia, della neuroestetica, e della cibernetica, o in altri termini la differenza che connota la relazione tra mente umana e la sua replica computazionale, costituisca la dialettica imperante di questo primo ventennio del XXI secolo (Malabou, 2021, p.9). Se nel rivisitare i contributi di Dewey e Piaget in virtù delle proposizioni epistemologiche ed epigenetiche rispettivamente, Malabou rintraccia le tre principali metamorfosi dell’intelligenza nel XX sec., distinguendo tra genetica, epigenesi, e simulazione sinaptica, significativo è in conclusione, il suo contributo nel ripensare il potere di strumenti utili all’ automatismo, consacrando in maniera sempre più efficace l’alleanza tra biologia, filosofia, e cibernetica (ibid. p.14). Se questi paradigmi hanno definitivamente decostruito le teorie imperanti dell’innatismo e del razionalismo nella cultura occidentale, introdurre una questa questione sui paradigmi epistemici della contemporaneità significa porre una riflessione fondamentale sulla plasticità e morfologia dei fenomeni in termini materici, percettivi, affettivi, e neuro-estetici (ibid.p.66). 

Questa visione intrattiene conseguenze fondamentali nel pensare nuovamente la materialità, il fare artistico, la sua percezione, secondo un neo-materialismo di dati e sensazioni poi tradotte, come suggerisce Anadol, in un morphing plastico e  configurativo. Questa affinità è sancita da un’immagine eloquente che ritorna nelle visualizzazioni artificiali di Anadol tanto come nell’immaginario filosofico di Malabou: l’immagine di un corallo vivente, un’immagine soggetta a molteplici metamorfosi in senso plastico, simboleggiando iconologicamente una nuova forma e norma ideologica quale segno dell’indeterminatezza biologica e funzionale dell’individuo, immagine simbolica di nuove espressioni psicosomatiche e standard, risorsa di nuovi potenziali epigenetici (Malabou, 2019, p.98) nonché mnemonici e artistici. Ne consegue che, come suggerisce Malabou sulla linea di Piaget, le forme e le applicazioni di intelligenza artificiale escludano ogni possibile processo di reificazione per ricercare nel pragmatismo dei processi coinvolti, un equilibrio, una stabilità, una serendipità utile a sollecitare gli aspetti morali ed affettivi delle individualità messe in campo nell’esperienza artistica, spiegando la memoria in termini di metacognizione e medialità. 

Ciò diventa ancora più evidente in quella che Malabou definisce come una questione relativa all’automatismo insito in certe pratiche come quelle AI, riflettendosi in un conflitto tra controllo e spontaneità, tecnologia e natura, automatismo e autonomia (ibid., p.99). Rivisitando le teorie pragmatiste di Dewey, Malabou sostiene il valore creativo che particolari pratiche tecnologiche come quelle AI suggeriscono in specifiche situazioni, interrogando la dialettica che sussiste tra il conflitto della mente e il potere dell’automatismo e viceversa, la dialettica che articola le relazioni tra un  automatismo del potere e il conflitto abituale (ibid., p.101), entrambi traducendosi ultimamente in un’ azione (ibid. 102). Nello specifico, in virtù di questi presupposti e condizioni suggerite dall’automatismo di certe pratiche artificiali, per Malabou e in conformità con le posizioni di Anadol, risultano fondamentali una diversa concezione del tempo e della memoria. Tempo come implementazione, un’implementazione in cerca di un possibile equilibrio tra l’apriori e il posteriori nel continuum della vita, sostiene Malabou, assunti fondamentali a definire l’affinità esistente tra esperienza e memoria (ibid. p.106). Non solo quindi un’accezione etica, ma una connotazione pragmatica del tempo e della memoria diversamente dalla posizione intuitiva e individuale di Bergson, sostiene Malabou: una concreta disappropriazione del se’ come soggetto al fine di costruire una situazione impersonale soggettiva che, radicata nel sistema nervoso, ultimamente mira a definire la pura funzione strumentale di ogni processo di ricostruzione temporale e mnemonico (ibid. p.108). 

È questa la questione teorica fondativa delle applicazioni dell’intelligenza artificiale, sostiene Malabou, che nel rimarcare l’evidente conflitto insito nelle automazioni dell’AI – combattuto da un lato da posizioni teoretiche che interpretano la mente umana come una macchina pensante, dall’altro, da posizioni che vedono nell’epigenetica e nella neuroestetica strumenti utili al progresso – sostiene un’ auspicata e necessaria serendipità nei confronti di ogni rischio etico, escludendo ogni giudizio critico per riflettere del conflitto tra necessità e contingenza (ibid.118-119). In maniera simile alla posizione di Refik Anadol, Catherine Malabou sostiene la necessità di costruire un’affinità cibernetica (ibid. p.123) che non risulti fine a sé stessa ma sia in funzione di contributi creativi, metamorfici, ed epistemici. Quest’ultima posizione conferma il ruolo costruttivo e collettivo che la memoria assume nella contemporaneità, una costruzione fondativa che si pone l’obiettivo di plasmare una pluralità di intelligenze naturali e artificiali in un contesto collettivo e mediale, enunciando un nuovo universalismo del virtuale. Ma la questione non è priva di questioni etiche e nelle parole di Malabou:

Ma – ed è qui che i filosofi devono parlare apertamente – affrontati con gli sviluppi nell’intelligenza artificiale, l’unica soluzione significa, infatti, accettare una perdita di controllo. Perdere il controllo dell’intelligenza in modo intelligente (Malabou, 2019, oag.153). 

Con l’invito a liberarsi dal regime del controllo, regime fondativo di ogni poetica e politica formalista, Malabou suggerisce l’avvenire di un nuovo sistema politico, economico, culturale, e sociale, volto a riconoscere il potere intersoggettivo dato dalle più recenti applicazioni digitali e artificiali. In altri termini, ‘disconnettersi da sé’ o ‘lasciar andare intelligentemente’ sono per Malabou, strategie utili a ripensare il ruolo della soggettività come iscritta in un sistema tecno-relazionale rivendicando parallelamente la funzione metacognitiva quale condizione fondativa e identitaria del soggetto (ibid.). Se è indubbio che valore il etico, estetico, e artistico di un tale fenomeno sia epocale, dal modello del teatro e del tempio della memoria individuati da Grau, una questione sulla medialità e le metamorfosi della memoria suggerite delle applicazioni artificiali, può forse in fondo solo intendersi come una rinnovata interpretazione delle tecniche dell’ars combinatoria oggi applicata alle architetture del virtuale. 

Bibliografia: 

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  • Grau, O., 2003. Virtual Art : From Illusion to Immersion. Cambridge Mass: MIT Press.
  • Malabou, C., 2019, Morphing Intelligence: From Iq Measurement to Artificial Brains, Columbia University Press: New York. 
  • Langer, K. Suzanne, 1953, “Feeling and Form. A Theory of Art” In Philosophy in a New Key, Charles Scribner’s Sons, New York. 
  • Piaget, J. 1971. Biology and Knowledge. Press.
  • Piaget, J., 1973. Memory and Intelligence : Transl. by Arnold J. Pomerans 1. publ ed., Routledge and Kegan Paul, London.
  • Popper, F. 2007, From Technological to Virtual Art, MIT Press, Cambridge Mass.
  • Popper,  F., 1993, “The Place of High-Technology Art in the Contemporary Art Scene”, in Leonardo, Vol. 26, No. 1 (1993), pp. 65-69 Published by: The MIT Press Stable 
  • Reale, G., 2017. “Il Virtuale che si fa Reale,” in Exagere Vol. 5, Società Italiana di Psicologia e Pedagogia, Pisa
  • Storm, B,, Soares, J., 2021, “Memory in the Digital Age” in The Oxford Handbook of Human Memory, Oxford University Press, Oxford. Online. Accessibile: https://www.researchgate.net/publication/355038642_Memory_in_the_Digital_Age (consultato lì 08.04.2024).
  • Yates, F. A., 1994. The Art of Memory, Pimlico. London. 
1)

Per una etimologia del virtuale si veda il contributo di G. Reale, “Il Virtuale che si fa Reale,” in Exagere Vol. 5. 2017

2)

Per una riflessione sui nuovi materialismi in chiave postumanista, si veda: Bennett, J., Vibrant Matters. A Political Ecology of Things. Duke University Press, Durham, 2007. D. Coole, S., Frost, New Materialisms: Ontology, Agency, Policy, 2010, Duke University Press, Durha;

3)

Per un approfondimento sull’interpretazione contemporanea del termine ‘ars combiantoria’, si veda: Eco. U., Combinatoria della Creatività, 2004. Online. Accessibile: http://www.umbertoeco.it/CV/Combinatoria%20della%20creativita.pdf

4)

Su questa transizione si veda: Buoso, S., 2024, “Illusionismo: Il Sensorium Virtuale tra Illusionismo e Virtualità”, in "Lessico artistico” e "Arte e tecnologia", Horti Hesperidum, Dipartimento di Beni culturali, musica e spettacolo presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Roma.