Sorprende come la capacità di trovare un tema sul quale investire – quindi insignire, elevare, conferire, impiegare – un intero ambito del sapere, in ognuna delle proprie peculiari declinazioni, sia allo stesso modo estremamente facile e perentoriamente complesso. La materia sulla quale ci siamo concentrati in questi anni, per creare una rivista, è quella dell’Umanesimo Tecnologico.
Un argomento che ho l’impressione di frequentare da sempre, con il quale sono entrato in “tormento e sintonia” sin dall’adolescenza e ho iniziato a misurarmi in seguito, professionalmente, prima dell’anno 2000, quando indagavo la possibilità di far dialogare – attraverso me, quale inconsapevole “attore santo” e inadeguato performer – artisti, imprenditori, gente dello spettacolo e della comunicazione, “alla ricerca del grande pieno di vuoto della cultura contemporanea: il mecenate”
In quegli anni mi sono convinto della necessità di una prospettiva essenziale per gli esiti e le conclusioni di questa fase contemporanea dell’epoca moderna; una visuale, che credo fermamente sia da costruire e non da concettualizzare. Mi riferisco alla straordinaria opportunità che le arti sono, da un lato per determinare l’opera d’arte e, dall’altro, per fondare quella necessità di educazione alla bellezza che la classe dirigente deve esperire, se vuole continuare a esserci in modo credibile.
Le imprese devono necessariamente saper svelare.
«Non ho mai pensato che arte e imprese, storia ed economia, studio e lavoro debbano necessariamente trovarsi in conflitto. Tale contestazione è ignorante e contrappone gli studenti ai lavoratori, gli intellettuali alla classe dirigente, gli artisti agli artigiani, finendo per rendere impreparati i protagonisti della “gestione” tanto delle università e delle accademie (o, più in generale, del mondo dell’istruzione) quanto delle aziende, delle imprese (o, più in generale, del mondo del lavoro)»[1].
La capacità di decodificare consapevolmente e oggettivamente con lo sguardo, quello che si vede – soprattutto nelle società complesse, globalizzate, iper-connesse, contemporanee – costituisce una delle grandi opportunità per rendere essenziale la realtà. La cultura e la bellezza sono beni essenziali al mantenimento della ricchezza, infatti agiscono direttamente sulla qualità di vita degli esseri umani; le immagini, istituendo la realtà, divengono il fondamento della cultura, che è alla base delle civiltà sulla quale si fondano le società. (E sono le azioni delle persone che modificano gli spazi e formano le società, non il contrario).
La genesi di questa rivista è nata all’improvviso, da un momento all’altro, interrompendo uno dei grandi freddi tipici delle brevi città di provincia. Era verso Natale del 2018; l’ambiente, la festa per gli auguri – offerta ai suoi collaboratori – da un caro amico della Scuola di Grafica e Comunicazione dell’Accademia di Belle Arti SantaGiulia – Alessandro Ferrari – alla quale ho l’onore e il piacere di partecipare da qualche anno, con alcuni miei colleghi e con diversi miei studenti. Alessandro apre la serata – sobria, elegante, bella e ricca di ottimo vino – salutando i suoi ospiti e condividendo quanto, secondo la sua ottica, “le aziende siano un organismo con tanto di anima, «odorino di uomini»[2], di umanità, rendendole per questo pronte a progettare nuove tecnologie, per il presente, per il futuro”. A fine serata, prima di ritirarmi, salutando e ringraziando Alessandro, mi congedo dicendogli: “… certo che sarebbe molto bello se le arti, la cultura e l’impresa sedessero insieme, attorno allo stesso tavolo, e cominciassero a recuperare una sorta di Umanesimo Tecnologico”.
Eccoci qua, senza inventare niente. L’area di studio affronta in modo saggistico ed esplicativo la ricerca attorno alla materia che rappresenta una delle questioni capitali del processo di sviluppo degli ambienti antropologici. Il tema oggetto di studio, è (e sarà) fra i più complessi ed essenziali per la crescita futura delle culture, del metodo educativo, del benessere, dei valori umani, dei valori spirituali, della cultura visuale – che delinea nuovi orizzonti nel processo comunicativo – e della questione morale. Tutto questo, immersi nelle odierne civiltà urbane dense di periferie, dove le figure sono simili a rappresentazioni percettive della realtà medesima. È in questa soglia, privata del rapporto immediato con il genius loci, che il corpo diviene una sorta di mimesis della visione.
Buon Umanesimo Tecnologico.