Abstract
Il Palais de Tokyo di Parigi ha ospitato, dal 22 maggio al 24 ottobre 2021, la mostra Natures Mortes di Anne Imhof. Pur senza presentare un singolo schermo interattivo, l’esposizione sembra dire qualcosa di fondamentale sul presente e sul futuro dell’Occidente, in particolare in relazione all’esperienza della vita umana sotto il controllo costante e pervasivo delle macchine. Uno dei corollari della situazione contemporanea è la distruzione della differenza fra spazio pubblico e privato – quindi della politica. Al fine di approfondire le affermazioni di Imhof riguardo alla sua opera («[The work is about] the idea of the single individual, who can make all these connections through digitalization, but is being controlled by being tracked, and who will always be seen wherever they are»), viene proposta l’introduzione della categoria estetica della “piattaforma” come modo del pensiero visuale contemporaneo.
The Palais de Tokyo in Paris hosted Anne Imhof’s Natures Mortes exhibition from 22nd May to 24th October 2021. Even without presenting a single interactive screen, the exhibition seems to say something fundamental about the present and future of the West, in particular concerning the experience of human life under the constant and pervasive control of machines. A corollary of the contemporary situation is the destruction of the difference between public and private space – therefore of politics. In order to deepen the artist’s own statements («[The work is about] the idea of the single individual, who can make all these connections through digitalization, but is being controlled by being tracked, and who will always be seen wherever they are»), the introduction of the aesthetic category of the “platform” as a mode of contemporary visual thought is suggested.
Piattaforme digitali
Scorrendo il feed di Twitter, un paio di sere fa mi sono imbattuto in un meme piuttosto divertente: l’immagine è quella di cinque ragazze disegnate nello stile dei fumetti giapponesi; sulle loro teste, qualcuno ha sovraimpresso i loghi delle aziende multinazionali tra le più ricche e potenti del mondo. Visto il recente cambio di nome di Facebook in Meta, i colossi noti col minaccioso acronimo FAANG (Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google) si sono trasformati – inversione di atmosfera emotiva che genera la risata – nei più innocui e teneri MANGA.
Le news di economia rigurgitano quotidianamente una serie di sigle che identificano le imprese alla testa del NASDAQ: gli acronimi FANG, GAFAM, FAAMG, BAT servono da indice rispetto alle tendenze attuali dei mercati, quello più in voga segnala le forze vincenti del momento. Nell’era del capitalismo finanziario, l’operato delle FAANG (le decisioni che compiono, i servizi che offrono, i progetti di ricerca che animano) rappresenta meglio di qualsiasi altra cosa la cultura dominante della nostra epoca.
Le FAANG e altre aziende come Adobe, Alibaba, Baidu, Microsoft, Nvidia, Tencent e Tesla si contraddistinguono per il fatto che esse operano nel settore dell’informatica e godono di fama e riconoscimento popolare: sono “piattaforme digitali”, ambienti hardware e software a configurazione variabile, biomi virtuali – si parla anche di “ecosistemi” – che supportano applicazioni differenti. Secondo un paradosso emblematico del nostro tempo, più diminuisce la biodiversità naturale, più aumenta quella cibernetica.
È plausibile pensare che le piattaforme digitali debbano il loro nome solamente alle convenzioni dell’ingegneria informatica? La descrizione di queste entità si esaurisce entro i confini di una manciata di discipline tecniche? Piuttosto, non si tratta di oggetti molto complessi, che sfuggono a facili categorizzazioni? Ad esempio, non accade forse che le piattaforme digitali succedono a quelle petrolifere come luogo principale delle attività estrattive del capitalismo?
In assenza di definizioni sicure, una cosa è certa: oggi la rappresentazione della realtà vale più della realtà stessa. L’Economist nel 2017 titolava: «The world’s most valuable resource is no longer oil, but data»[1]. I data (ma sarebbe meglio chiamarli capta, come ha suggerito Johanna Drucker)[2] sono la materia prima estratta, gestita e venduta dalle piattaforme digitali, il motore invisibile di tutte le loro operazioni. I dati vengono prodotti, appropriati e sfruttati secondo un ciclo di semiosi che possiede oramai il carattere e la necessità di un fatto meteorologico. Si tratta di realizzare asimmetrie informative, feedback loops accelerati, dislivelli stratigrafici nei database.
L’ascesa delle piattaforme non è un fenomeno recente. Nel 2001, a bolla dot-com già scoppiata, il protagonista di Piattaforma di Michel Houellebecq si esprimeva così: «In uno stato di eccitazione leggermente irreale, definimmo una piattaforma programmatica per la spartizione del mondo»[3]. Nel caso del romanzo, un’agenzia turistica priva di scrupoli progettava un sistema che avrebbe definitivamente incrociato desideri sessuali e bisogni materiali di tutta la popolazione mondiale. Il rapporto sregolato e ingiusto fra nord e sud del pianeta veniva bilanciato elevando l’abbandono di qualsiasi principio morale a business plan, i corpi di ciascuno letteralmente trasformati in “capitale umano”: utopia realizzata della globalizzazione.
Oggi le piattaforme sono attori riconosciuti in lotta per il dominio del pianeta, le loro casse e i loro cicli produttivi valgono più di molti stati-nazione messi assieme. I mezzi per conquistare il mondo non sono più militari. Come spiegato da Shoshana Zuboff[4], ciascuna piattaforma mira ad acquisire il maggior numero di utenti possibile allo scopo di trasformarne il comportamento, in maniera tale che la rinuncia ai servizi da esse offerti diventi socialmente impraticabile. Ognuno di noi sarebbe perfettamente in grado di vivere al di fuori dalla morsa delle FAANG, ma, più aumentano gli iscritti, più è difficile essere con l’Altro senza che la relazione implichi la mediazione e il supporto di una piattaforma.
Nella loro aspirazione universalistica, le piattaforme non sono solo infrastrutture, sono, almeno, una concrezione esplicita di quel “Kapitalismus als Religion” teorizzato da Walter Benjamin[5]. Le piattaforme “convertono”. Invece delle sette e delle correnti: le culture aziendali; invece dei riti sacrificali: i keynotes. Mark Zuckerberg ha un mandato soteriologico, sostiene che la mission di Facebook è “connettere” tutte le persone nello spazio separato della rete. Ma se l’accrescimento infinito del capitale diventa religione, quali sono i suoi effetti sugli abiti degli adepti? Come si esercita l’influenza piattaformale sulla dialettica contemporanea tra salvezza e il plesso debito/colpa?
Il “behavior” umano viene spiato, studiato, giudicato e diretto secondo le linee del «comportamentismo» sperimentale[6], “scienza” applicata dai dipartimenti di analisi e marketing delle piattaforme che plasma il nuovo spazio in cui si dispiega la forza deterritorializzante del capitale. Secondo ogni evidenza, l’alleanza inaudita fra psicometria, ingegneria e finanza, facendo leva sui grimaldelli degli avatar, dei termini di servizio e delle interazioni a distanza istantanee, un giorno permetterà alle piattaforme digitali di sostituire l’ordine mondiale degli stati-nazione tuttora basato su categorie desuete come identità, costituzioni e confini.
Corpi piattaformali
È noto che il tracking, la profilazione e l’analisi dei big data permettono una nuova modalità di messa a profitto dei corpi umani, cioè l’ente che esprime un “comportamento”. La tecnica elude i confini spaziotemporali del lavoro dipendente entro i quali essi erano tradizionalmente direttamente impiegati dal capitale. Oggi, in ogni istante, su qualche server di ignota localizzazione, veniamo scansionati, modellizzati, valutati, zippati, aggregati e rivenduti sotto forma di statistica. Le scale spaziotemporali sono microscopiche: l’esercizio estrattivo avviene perfino al livello dell’inconscio grazie all’analisi dei micromovimenti muscolari, allo studio automatizzato dei post e dei like, degli “amici” e dei “seguaci”, del tracciamento biometrico. Potreste anche partecipare il meno possibile alle attività delle piattaforme, ma il vostro grado di coinvolgimento già vi identifica in un determinato segmento di popolazione.
La novità radicale annunciata dallo smartphone è questa: una volta che lo spazio pubblico e privato è riempito e percorso da sensori – dispositivi di captazione e registrazione connessi alle piattaforme – per contribuire allo sviluppo e al movimento complessivo delle forze di alienazione basta avere a che fare, anche involontariamente, con una interfaccia: basta essere un corpo. La biopolitica esce dagli istituti disciplinari per installarsi definitivamente nello spazio quotidiano. L’universalizzazione e l’automazione crescente delle tecniche di sorveglianza e controllo dimostra che, lungi dall’aver esaurito la loro capacità di prensione, le categorie foucaultiane di biopolitica[7] e governamentalità[8] rimangono una premessa imprescindibile per interpretare la contemporaneità.
Ora, nonostante la sussunzione di sempre più aspetti della vita umana da parte delle piattaforme sia in atto almeno da un paio di decenni, è raro trovare pensatori o artisti in grado di rendere conto di questa situazione a livello complessivo. Sembra che oggi sia molto difficile dire o fare qualcosa di rilevante rispetto a questo argomento evitando di percorrere una delle due vie opposte e ampiamente battute che consistono nel proporre inchieste sul presente e la sua archeologia mediale oppure celebrazioni futuriste del tecnoutopismo.
Il 2021 ha sancito la nascita del Web3, la rete finanziarizzata governata da smart contract. NFT e criptovalute si rincorrono forsennatamente annunciando un’ulteriore accelerazione degli automatismi delle piattaforme e delle disparità nella distribuzione della ricchezza. Eppure, ci troviamo ancora in una situazione in cui è molto difficile pensarle non in quanto tali[9] ma in quanto origine del movimento dei corpi contemporanei, forse già più potente, a livello del desiderio, dei vettori di soggettivazione tradizionali come famiglie, stati e mercati.
Critici e apologeti dei dispositivi tecnologici e della seconda natura che si dispiega al di là dei black mirrors per lo più soprassiedono una serie di domande che stanno diventando sempre più importanti esattamente perché sono un rimosso difficile da pensare: che ne è, oggi, dei nostri corpi? Che ne è di questo resto della trascendenza? Qual è l’effetto incarnato di un mondo in cui le relazioni con gli altri si instaurano e si dispiegano entro la nicchia cibernetica delle piattaforme? Cosa rimane nell’al di qua del metaverso? È possibile pensare il corpo nella sua materialità “prima” che venga intercettato da una piattaforma?
Che ci si senta più vicini ai licheni o ai server piuttosto che ai propri simili come vuole la moda e la mitologia contemporanea, rimane che tutto ciò di cui facciamo esperienza è reso possibile dalla nostra carne, il medium dell’esperienza per eccellenza. Che lo si voglia o meno, non possiamo che essere da questa parte dello schermo, con buona pace dei transumanisti e della loro bizzarra escatologia, la «singolarità»[10].
Poiché per mezzo delle piattaforme digitali è in atto una riconfigurazione generale di gesti e azioni senza precedenti, varrà certamente la pena chiedersi cosa accade alla materia che li sottende, e quindi, in generale, quali sono gli effetti reali prodotti dall’integrazione pervasiva dei movimenti e delle passioni di ciascuno entro lo sviluppo del capitale, soprattutto rispetto alla novità costituita dal fatto che ciò avviene anche al di fuori del tempo e dello spazio del lavoro, o secondo un regime misto in cui prassi e contemplazione, operosità e inoperosità divengono forme temporali indistinte.
Note sulla piattaforma
La mia ipotesi: la mostra Natures Mortes di Anne Imhof appena conclusa al Palais de Tokyo di Parigi costituisce una risposta possibile a questo abisso impensabile del pensiero contemporaneo. L’evento è sulla bocca di tutti e si è guadagnato la copertina di Artforum del dicembre 2021. Perché? Natures Mortes è uno studio accurato sul destino dei corpi nel XXI secolo, è un’opera archeologica che riflette sulla condizione reale della loro esistenza esponendoli come sono qui e ora, giusto un attimo prima di qualsiasi processo di soggettivazione.
Dall’opera di Imhof si può dedurre un paradigma formale assolutamente innovativo. Riprendendo la formula di Ernst Cassirer utilizzata da Erwin Panofsky, penso che attraverso l’arte di Imhof la piattaforma assurga al livello di «forma simbolica»[11]; anzi, che in generale l’opera dell’artista imponga la piattaforma come forma simbolica del XXI secolo, come stile complessivo della visualità contemporanea, a sostituzione del progetto-guida del Novecento, l’installazione[12].
Nei prossimi paragrafi intendo abbozzare un tentativo di caratterizzazione della piattaforma indipendente dai risultati che si potrebbero trarre confrontandola con l’installazione. Rimanga però questo: a differenza dell’installazione, la piattaforma si fa esplicitamente carico sia di oggetti sia di una certa popolazione di esseri viventi. L’osservatore cede il passo a gruppi di utenti classificati, comunque pensati in quanto inseriti in una infrastruttura che li precede.
È immediato notare che molte delle opere di Imhof sono, letteralmente, piattaforme: superfici rettangolari, opache o trasparenti, talvolta affisse ai muri, talvolta sollevate da terra per mezzo di piloni, talvolta direttamente posate sul pavimento. Piattaforma era anche la struttura in vetro e alluminio al centro di Faust, l’opera che valse all’artista il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 2017. Come non mettere queste forme in relazione allo spirito del tempo? Se la forza dell’arte migliore consiste nella capacità di operare e comunicare una sintesi sfolgorante tra il particolare e l’universale, sicuramente Natures Mortes accoglie ciò che accade al di fuori dei suoi stessi limiti in un abbraccio materno.
Come si caratterizza la forma-piattaforma? Data la complessità e novità dell’oggetto, si possono per il momento (ma forse per sempre) avanzare una serie di osservazioni parziali che rispecchiano la parzialità essenziale alla cosa stessa che si tenta di descrivere. Prima di tutto: la piattaforma è un ente totalizzante e al tempo stesso parcellizzante, distribuisce posizioni all’interno di un tutto. Per quanto riguarda i regimi di visione, opera una partizione dello sguardo. La parzialità della visuale piattaformale non consiste in un impedimento fisico, anzi, la trasparenza le è essenziale, percorrerla è sempre possibile, impossibile è esaurirla. La piattaforma è “evidente”, ma evidente nella sua inconoscibilità totale.
Il materiale centrale dell’opera di Imhof è il vetro (lo stesso che funge da giunzione fra le interfacce e il mondo). L’effetto? Il riflesso e la sua stessa messa in scena. L’uso del vetro esalta la trasparenza della piattaforma, di cui si ipotizza di poter misurare i confini. Percorso dallo sguardo, nelle diverse sfumature di opacità in cui compare, talvolta decorato da graffiti tag (@menzione) che ne sottolineano l’essenza di medium e superficie di iscrizione, il vetro offre alla visione il resto fantasmatico delle cose che lo circondano e di cui la piattaforma (la configurazione totale delle superfici-interfaccia) si appropria, dimostrando le sue modalità di cattura del reale.
Il gesto si ripete quando i materiali sono diversi: a meno che non costituiscano inamovibili impalcature, sempre suggeriscono la possibilità di passarci attraverso. Se sono opachi, potremmo comunque romperli senza danneggiare la piattaforma. Dove ci sono limiti fisici che bloccano il corpo (portali, divisori, balaustre, cancelli, corrimani, reti) comunque è permesso gettare lo sguardo oltre o, almeno, si può immaginare di farlo. La piattaforma impone una “libertà condizionata” senza promettere nessuna liberazione, anzi, paventa l’esclusione dell’utente come pena[13]. Meglio – siamo in un regime di competizione – penalità. L’artista ha lavorato come buttafuori per un club di Francoforte[14].
Imhof progetta strutture e vi orchestra umbratili rituali che sono feste sacre a scandire il calendario di una religione sconosciuta (lo abbiamo detto, è il capitalismo; una prassi è riconosciuta come religiosa solamente da chi ne prende le distanze). Nei momenti in cui le performance sono disattivate, la parzialità è ontologica; durante le azioni sceniche, la parzialità risiede in una sovrabbondanza di siti possibili da ispezionare. Per forza di cose, molto di ciò che avviene accade simultaneamente, per una volta e mai più. Ne siamo a conoscenza, e questo disorienta e indigna visceralmente perché sottolinea i limiti percettivi dei corpi rispetto a quelli delle macchine.
La piattaforma “salva”. L’azione (performativa) è per forza di cosa irripetibile, a meno che non sia registrata e condivisa online dal dispositivo mobile di qualche spettatore. L’hashtag #anneimhof sostituisce la necessità di un catalogo tradizionale e consegna tutto alla condivisione nella separazione. I profili Instagram di Imhof, dei suoi collaboratori e del pubblico si rimpallano i microeventi – luce deviata dalle facce interne di un grafo/cristallo n-dimensionale – che suggeriscono, senza esserlo, una totalità. «This is not a Gesamtkunstwerk»; così l’artista[15].
Nel regime piattaformale sempre più cose (passate, presenti e future) sono rese disponibili allo sguardo. Il desiderio si moltiplica, ma la possibilità di prensione e il soddisfacimento delle pulsioni accumulate diventano man mano più difficili e in ultima analisi impossibili. Nell’esplosione rappresentativa percorriamo all’indietro la curva asintotica che ci aveva portati all’illusione della corporeità[16], che viene allora disfatta e ricondotta a uno stadio primordiale e originario. I performer strisciano, leccano, lottano, si muovono secondo percorsi a loop – accelerati o al rallentatore (youtube.com: seleziona velocità di riproduzione: x0.5, x0,75, x1,5…) – si lanciano a terra, si toccano come per la prima volta l’uno con l’altro. Corpi in sfacelo. Di quale stimmung ci si può occupare oggi, se non della melanconia?
Punto di vista teorico, disincarnato e molteplice, aperto all’occupazione temporanea (il modo è quello della supervisione), la piattaforma “si eleva” sulla superficie informe dei pavimenti o degli indirizzi della rete che si sta sfaldando in sottoreti e reti di sottoreti. Fra spazi interstiziali e spazi estensivi, compressioni e dilatazioni di volumi, viene a instaurarsi una violenta dialettica che è quello della piattaforma stessa, entità cibernetica dotata di un costante movimento autonomo, secondo un ritmo di autoriconfigurazione che nessuno ha mai descritto meglio di Tsutomu Nihei, con le sue città del 10.000 d.C. costruite e smantellate senza posa da robot autonomi[17]. Imhof è musicista, e pugile[18].
Una delle sezioni di Natures Mortes è un labirinto di vetro e metallo che non inizia e non finisce da nessuna parte. Il riferimento non è Jorge Luis Borges (il labirinto solare) ma il videogame (il labirinto sotterraneo). I disegni di Imhof esposti in mostra potrebbero essere lo storyboard di un ipotetico AAA+ ambientato in una città progettata da Fritz Lang. Come tesori nascosti dietro angoli mimetizzati con l’ambiente di gioco, nel labirinto sono allestite sia opere di Imhof che opere di altri artisti: sono il bottino di un dungeon. Si scorre allora nello spazio della mostra così come si scorrono le schermate di un platform game o si discende la scroll di un social alla ricerca di contenuti preziosi sui quali pigiare “mi piace” o “condividi”.
La piattaforma come minimo comun denominatore del contemporaneo. La piattaforma “supporta” e “distribuisce” corpi, oggetti, gesti, azioni. La piattaforma “apre” un campo specifico di possibilità motorie e relazionali, in parte regolate da un progetto (algoritmo in un caso, sceneggiatura e scenografia nell’altro), in parte consegnate all’arbitrio degli utenti[19]. La piattaforma è “abitabile” a intermittenza (si entra, si esce): si fa habitat e ambiente. La piattaforma “eleva” e “staglia” parti di mondo di importanza variabile.
L’unico ente a non basculare lungo le curve infinite dell’assiologia digitale è il nostro corpo, a cui tutte le funzioni dei media in ogni caso riferiscono. Imhof rivolge la propria attenzione a questo dato di fatto e allo stato attuale della soglia di medializzazione che proietta il puro movimento (la vita) dei corpi dentro la metafisica. Il risultato (ma è un punto di arrivo dell’opera che è anche un punto di partenza) è un’affermazione: un corpo umano oggi è qualcosa di essenzialmente esposto su, attraverso, e per mezzo di una piattaforma. Esposto e non semplicemente “visibile”: l’esponibilità della cosa come modo di darsi implica la consapevolezza (incarnata o attribuita) della sua stessa visibilità.
Esposto a chi? Dopo la morte del Dio onnisciente, la secolarizzazione generale delle sue facoltà di visione attraverso la piattaforma implica che si ha finalmente la certezza che il controllore al centro del Panopticon è lì e rivolge lo sguardo verso ciascuno di noi (una rivoluzione non ancora ben messa a fuoco da coloro che parlano oggi di sorveglianza facendo collimare la situazione tecnica, economica e politica odierna con il dispositivo benthamiano che di fatto era qualcosa di assai diverso, ovvero l’immagine di una centrale di controllo dell’etica in un mondo ancora in attesa del Giudizio). Il dispositivo di visione di cui si deve ancora fare l’archeologia è la sfera di cristallo, specchio delle brame o magico Palantìr del Signore degli anelli.
«[The work is about] the idea of the single individual, who can make all these connections through digitalization, but is being controlled by being tracked, and who will always be seen wherever they are»[20]. A differenza del Panopticon, oggi non c’è un unico osservatore poliziesco, quanto una masnada di sensori automatici distribuiti in reti e sottoreti che servono un centro vuoto. I sensori alimentano un meccanismo generalizzato di premi/punizioni (governamentalità comportamentale) sempre più integrato e volto a dirigere la vita a suo discapito, microparcellizzando il movimento dei corpi ai fini dell’accrescimento e della riproduzione del capitale, con le conseguenze ecologiche e psicologiche che si conoscono.
Palazzo animale
È difficile pensare un incontro migliore rispetto a quello tra Imhof e il Palais de Tokyo. La consonanza fra l’estetica düreriana dell’artista tedesca e l’artefatto stato di semiabbandono dell’edificio (un capriccio contemporaneo) fanno della mostra un evento certamente irripetibile. La prima mossa è smantellare più muri possibile, rendere trasparente la struttura dello spazio, aumentare i punti di esponibilità e accesso o interruzione controllata della visione. Il Palais è pensato secondo le modalità della piattaforma; di conseguenza, tutto il dispositivo esposizione si fa piattaforma.
C’è una soglia d’ingresso (che è quella e non un’altra solamente perché col corpo possiamo muoverci in questo spazio e non direttamente in quello piattaformale), si entra in Nature Mortes. Stando ai testi del catalogo, il titolo è un calco dal Tableau Dada comparso nel 1920 sulle pagine della rivista Cannibale e firmato da Francis Picabia[21]. Il “tableau” (per sempre perduto, in realtà una fotografia) consisteva in una scimmia di peluche circondata da quattro iscrizioni irriverenti (e deferenti): «Portrait de Rembrandt, Portrait de Renoir, Portrait de Cézanne, Natures Mortes». Ritratto dell’artista in veste di scimmia, singerie.
La coppia animalità/umanità è il principale tra i motori dialettici che muovono le imprese espositive di Imhof. Nella figura del primate incontriamo la prima di parecchie soglie di permutazione interspecifica offerte da Natures Mortes. Queste compaiono perfino prima della visita, la mostra è stata pubblicizzata con una fotografia che ritrae Eliza Douglas, compagna di vita e di lavoro dell’artista, mentre cerca di prendere il volo da una piattaforma “facendo” l’avvoltoio[22]. Le direzioni aperte da queste soglie si sviluppano nella direzione opposta rispetto alle vie di fuga inumane immaginate da Gilles Deleuze e Félix Guattari[23]: piuttosto che il divenire-animale, Imhof analizza il movimento opposto, il divenire-umano, l’antropogenesi, senza che si dia certezza che ciò, alla «fine della storia» sia ancora possibile[24].
Si è detto della singerie: governato dalla piattaforma, l’artista è una piccola marionetta, la rappresentazione in miniatura di un animale, ai limiti dell’impotenza. L’utente è una preda che si aggira tra le rovine contemporanee della natura in disfacimento. Il piano terra del Palais è occupato principalmente da un alto corridoio composto da due piani (il due e il doppio ricorrono ovunque nella mostra) di barriere in vetro, legno e alluminio che curva rapidamente verso destra seguendo la geometria dell’edificio (Passage, 2021). È come essere a piedi su una autostrada spogliati dalla “macchina” che solitamente indossiamo, fuori luogo; uccelli anche noi, rischiamo di sbattere contro le barriere antirumore trasparenti se queste non sono decorate con forme riconoscibili (i tag, significanti sovraimpressi – i pannelli sono stati recuperati da un palazzo abbandonato di Torino, per cui, tra gli artisti in mostra è elencato anche NO TAV).
Alla destra del corridoio un cane nero (la piattaforma?) corre verso di noi, ma appena prima di poterci morsicare o farci la festa ritorna al punto di partenza: è Finite, Infinite (2010) un brevissimo video a loop di Sturtevant. Il cane è una sorta di cerbero che annuncia la presenza di una schiera di artisti inferi convocati (o postati) da Imhof alla sua messa nera: Giovanni Battista Piranesi, Théodore Géricault, Eugène Delacroix, Gordon Matta-Clark, Paul Thek. Finite, Infinite anticipa le odierne stories di TikTok riassumendo in pochi secondi quel filone della storia delle immagini in movimento che identifica una delle sue sorgenti nelle indagini anatomiche e fisiologiche condotte sui corpi animali, studiati in quanto assemblage di arti. Il corpo piattaformale, e questo è davvero uno dei caratteri salienti della contemporaneità, è, spesso a sua insaputa, “costantemente oggetto di un qualche esperimento”. Al piano inferiore compaiono le Animal Locomotions di Eadweard Muybridge e un altro pezzo di Sturtevant (Dreams that money can buy, 1967) che riconduce il Nu duchampiano alla stessa genealogia. Commentando Faust, Benjamin Buchloh ha parlato di «terrarium»[25].
Trasparenti antri sotterranei, dissezioni: se si pensa all’arte delle caverne e si accettano le ipotesi degli antropologi sullo sciamanesimo, si troverà che l’uso delle immagini per trattare e operare il corpo animale è antico quanto la storia dell’umanità; il mistero della filogenesi della cultura, ma anche quello dell’ontogenesi di ciascuno, antropogenesi, cameretta, blog. La serie Ahh… Youth! (1991-2008) di Mike Kelley entra così nella costellazione della mostra. L’autoritratto dell’artista americano nell’età della tarda adolescenza (immagine del profilo) compare senza soluzione di continuità entro una serie di fotografie composta da primi piani dei volti di animali di pezza e di peluche (c’è anche la scimmia, ovviamente!).
Dappertutto è in azione l’altalena linguistica tra la dizione nordica, still leben (vita immobile), e quella mediterranea natura morta. In mezzo, tutta la tensione della metafisica: il rapporto tra la rappresentazione congelata e il reale assassinato dai simboli. Il pendolo è colto secondo angoli di volta in volta diversi, ma il privilegio è dato a quelli che illustrano il corpo animale farsi corpo umano: i performer che collaborano con Imhof sono mannequin privi di espressione, pupazzi, talvolta privi di genere, androgini platonici, angeli cibernetici in movimento tra le gerarchie celesti del potere contemporaneo[26].
In quanto angeli, gli agili corpi dei mannequin fanno certamente le veci dell’artista, ma fanno anche le veci dell’utente: durante la mia visita ho incontrato una coppia di ragazzi, belli, ben vestiti, “più uguali degli altri”, che si muovevano a passi misurati nel Palais scattandosi a vicenda fotografie col telefonino, senza prestare attenzione a nessuna delle opere esposte se non in quanto elementi formali più o meno adatti a fare da sfondo alle loro composizioni da postare in tempo reale su qualche profilo social. Mi ci è voluto un po’ di tempo per notare la differenza fra me, gli altri visitatori e i performer. Chi, di questi, è un NPC? Chi, invece, gioca?
Abitare, localizzare
I mannequin che ho incontrato sono muti; quelli coinvolti nelle performance possono cantare, gridare o suonare («Art art art / La la la / Dive dive dive / As deep down as possible / Until your lungs fill with water like air»)[27]. In ogni caso, sono privi del linguaggio quotidiano perché, nell’evocazione di un’impensabile epoca preistorica in cui eravamo più primati che antropi, la domesticità come separatezza non esisteva, ed è proprio la dimensione dello spazio privato che le piattaforme stanno facendo a pezzi. Per ora, nessuno può dire quale configurazione sociospaziale succederà all’epoca dell’interieur borghese, matrice architettonica di una civiltà intera in via di dematerializzazione nel meta. Intanto, nel meatspace l’architettura serve per limitare e costringere, organizzare e dirigere, sfruttare e investire (una bolla dell’edilizia globale è stata fra le cause della recessione del 2007-2009)[28], non certo per abitare.
In attesa di ritrovare un luogo, i performer hanno a che fare “pubblicamente” con materie e oggetti domestici. E poi bevono, si drogano, indossano magliette di gruppi metal anni ’90 e tute da ginnastica. Le piattaforme del labirinto, a metà tra sfondo per videoclip musicali e allestimento per un photoshoot di moda, si intitolano Room. Le modalità delle azioni sceniche fanno collassare una sull’altra le stanze di uno squat occupato da studenti universitari ebbri di melanconia (sulle scale del Palais sono state appese le polaroid di Jägermeister del dioniso atrabilioso Cyprien Gaillard: Green Vessel Study, 2020) e un ignoto spazio sacro perduto per sempre dove l’immemoriale stupore del contatto fra il corpo postadolescenziale e una materia pura – latte, acqua, fuoco, cera, luce, fumo – racconta di un battesimo pagano che segue l’ennesimo eccesso.
La domanda però è: chi, tra noi, oltrepassa veramente i confini di ciò che è permesso? La performance del 2019 Sex è riproposta come video in Natures Mortes: si vede un giovane uomo (döppelganger di una generazione intera) che brucia un mazzo di rose; indossa una maglia con un pagliaccio alla Stephen King che, novello Arpocrate, intima col dito di fare silenzio. Esiste un’immagine migliore del disastro ecologico? Intanto, dalla giacca in pelle di Imhof appesa al muro cola o crolla una pila di “zucchero” (Trabende Trabanten / Wie werden wie ihr sein / Vergraben in eure Mähnen aus Kupfer und Gold, 2020).
La giacca (pelle animale, vestito umano) rimanda al motociclismo, un’altra passione di Imhof. Seguendo la lettura postapocalittica del presente offerta dalla mostra, l’iconico capo fa pensare pure all’iconografia del vagare e dello scorrazzare delle gang, dei gruppi umani divenuti muta, in caccia non si sa bene di cosa[29]. Bande che attraversano lo spazio insensato dello sprawl, intravisto già da Walter Benjamin nella confusione onirica dei Passages parigini – ci si ricorderà del corridoio con lo stesso titolo menzionato sopra – dove locale e globale, interno ed esterno, si compenetravano senza soluzione di continuità[30].
In un angolo della mostra, a terra, è posato un sintetico casco dorato alla maniera di Costantin Brancusi, una versione cyborg delle delicate Teste dello scultore romeno, oppure il resto criogenizzato di un capo mozzato da un incidente stradale su qualche Autobahn suburbana[31]. Scoperchiate i tetti delle case dell’Occidente: troverete tutta una generazione di figli e figlie che si sacrifica o viene sacrificata (questo non è chiaro) a un dio Saturno o alla schiera degli escatologici mecha di Neon Genesis Evangelion.
Due serie di dipinti costellano Natures Mortes. La prima è opera di Imhof e ha un tema calendrico-atmosferico: ne fanno parte due monocromi grigi (Untitled, 2017) che sembrano aver registrato come specchi posati a terra uno di quei compatti e uniformi cieli berlinesi, il giorno. Vero è che potrebbe pure trattarsi dello sfondo dei software di editing di immagini, il neutro assoluto dello schermo, emblema della potenzialità virtuale del digitale che corrisponde alla non-espressione dei mannequin. Altri quadri – a olio su tela oppure acrilico su alluminio – illustrano il calare delle tenebre attraverso gradazioni tonali delicatissime, sprazzi di arancione, giallo e bianco, che si trasformano lentamente in nero (Untitled (Natures mortes), 2021). Non manca un monocromo oscuro all’entrata della mostra: la notte.
I quadri su alluminio sono graffiati dalle unghiate rabbiose (tag informi) di un animale aggressivo che tenta di uscire da una gabbia[32]. I segni opacizzano il piano semiriflettente dei quadri feriti, offrendo una lettura dialettica: stiamo osservando un paesaggio da una finestra albertiana chiusa per il freddo oppure qualcuno ha tentato di sabotare la superficie, comunque infrangibile, dell’interfaccia? In ogni caso, una volta che la totalità del globo è stata mappata e sottoposta a monitoraggio satellitare, è difficile immaginare uno spazio “esterno” alla piattaforma, un “fuori”.
Da questa serie si distingue un significativo ritratto di spalle (Untitled, 2017) che ironizza col tema tutto della mostra: il volto del o della protagonista è celato, per sempre invisibile[33]. Al tempo stesso, il dipinto evoca l’iconografia dell’immersione attentiva per eccellenza, la Rückenfigur[34]. Impossibile non pensare alla tradizione del romanticismo tedesco, con l’indimenticabile Betty (1988) di Gerhard Richter e il Viandante (1818) di Caspar David Friedrich. Allo stesso tempo, il braccio nudo che si fa acuminata lama di luce è un elegante omaggio a Francis Bacon (Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion, 1944) così come all’approccio dell’artista inglese allo stesso tema che interessa Imhof, la soglia di indistinzione fra animale e uomo[35]. Poiché il fondo del quadro senza titolo è nero, si deve dedurre che gli occhi del personaggio ritratto non possono osservare nulla di diverso da un silenzioso abisso nietzscheano – contrappunto formidabile ai nostri sguardi fissi sui protesici schermi retroilluminati.
La seconda serie di dipinti è opera di Eliza Douglas: si tratta di un gruppo di grandi tele realizzate a partire da fotografie delle magliette che fanno parte della collezione dell’artista americana. Considerata l’influenza potentissima del mondo della moda su tutto ciò che fa parte di Natures Mortes, questi ingrandimenti sembrano monumentalizzare il settore economico che ne ha permesso la realizzazione e che fa sempre più da padrone e committente esclusivo nel mondo dell’arte e della cultura contemporanee.
D’altra parte, i quadri di Douglas paiono celebrare le ultime possibili comunità egualitarie. Le magliette ritratte non sono quelle firmate bensì capi che chiunque può comperare su Internet a poco prezzo[36]. Ogni volta che mi infilo una tee scelta tra quelle stropicciate e riposte alla rinfusa nell’armadio della cameretta, che sia quella della squadra di calcio o della band underground, divengo parte di una società di pari che potrei non incontrare mai di persona. Non c’è gerarchia in una comunità di fan o follower (almeno fintantoché le pratiche del paywall e dei fan token diverranno ubique).
Essere passeggero
Sicuramente si può dire che un corpo vivente, a prescindere dalla specie, sta, occupa una porzione di spazio, ma quando si può affermare che questo “abita”? C’è bisogno di una veste posata sul corpo? Di un cielo – e non di un tetto – sulla testa? Di un supporto sotto i piedi? Imhof afferma che una piattaforma è necessaria. Una piattaforma è qualcosa di elevato rispetto a qualcos’altro. Le piattaforme, dalle quali sempre ci si deve alzare per assurgere alla statura umana (i titoli: Bed, Dive Board, Stage) dettano una dialettica fra animalità/umanità e alto/basso non prescrittiva.
Trovano così spazio in mostra anche le opere di Wolfgang Tillmans e Alvin Baltrop, dedicate a corpi-zero orizzontali o in attesa (disattivati), magari ridotti a nuda vita attraverso una violenza (statale o sessuale) imposta oggi dal capitale. Importa questo: certamente i corpi-zero non sono quelli che noi stiamo vivendo mentre li osserviamo perlustrando la mostra o assistendo alla performance, pure, rappresentano uno stadio potenziale della nostra esperienza quotidiana.
In ogni caso, in quanto popolo della piattaforma mai siamo esonerati da quella condizione di «passengerhood» ontologica[37], che è culla e condanna a cui siamo destinati sotto il dominio della tecnica. La fenomenologia di questa stimmung è ovunque in Natures Mortes e può essere messa fuoco se si pensa a quel taglio iconologico trasversale a tutto l’Atlas di Aby Warburg secondo il dipolo portare/essere portati, incarnato dalla celebre Ninfa del Ghirlandaio[38]. Tradotta nel presente, ritroviamo molte versioni della Pathosformel nei tableaux vivants delle performance, ad esempio quando i corpi si fanno mezzo di trasporto.
Si rinforza così l’impressione che la mostra sia da interpretare come un “montaggio di piattaforme (in movimento)”, abbia come oggetto le piattaforme, sia essa stessa una piattaforma. Alcune sono sistemate secondo sequenze di mise en abyme: i “letti” sono rettangoli di marmo (magari rialzati su piloni) sui quali è appoggiata una seconda superficie, un materasso in gommapiuma da quattro soldi – la differenza sottolineata dai materiali di valore opposto. Altrove c’è una coppia di stativi che regge un lungo palo: l’oggetto esposto sul piedistallo è un altro piedistallo (per volatili o bodybuilders), un altro livello della piattaforma, un layer. A loro volta gli stativi sono sorretti da uno zoccolo che riprende la loro forma e che è appoggiato sulla piattaforma di una Room.
Quando sono abitate dai performer, o quando, da visitatori, ci immaginiamo di divertirci salendoci sopra, le piattaforme-oggetto di Imhof rimandano a un gesto originario dell’architettura alternativo a quello mainstream: non il tetto con la sua funzione di difesa e riparo, ma la piattaforma con la sua funzione di esposizione, controllo, supervisione. Piuttosto che la grotta: la palafitta, casa di un’umanità bambina. Imhof prende in mano un orologio e delicatamente riporta indietro le lancette della storia e del tempo: la scala delle sue opere è grande senza essere
monumentale; vi stiamo di fronte, o in mezzo, o sopra, o sotto (Track, 2021), nello stesso modo in cui un bimbo sta nello spazio.
Forse un giorno lo spazio piattaformale ci sembrerà piccolo, ma per ora è enorme, non lo comprendiamo, ci disorienta, ha potere su di noi e ci può annientare. Forse, in un mondo in cui sempre siamo accolti da qualcosa di più grande di noi, la possibilità di divenire “grandi” non si darà più. In definitiva Natures Mortes afferma questo: se la piattaforma è l’estetica del contemporaneo, è soprattutto in essa e attraverso di essa che oggi l’essere umano si spoglia della sua animalità (del suo passato onto e filogenetico) e misura la propria posizione nel cosmo.
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