L’esigenza di tecnologie – al pari dell’estensione della visione percettiva nelle differenti necessità di comunicazione – si intona al bisogno di sperimentazione tipica della condizione umana. È facile cascare nell’inganno di sovrapporre fruibilità, utilizzo, innesco, partecipazione della/alla tecnologia, anche se, in realtà, si tratta di fenomeni non necessariamente coincidenti. Diventa molto complesso osservare la tecnologia, guardarla, così come “essere con-” la tecnologia, anche solo nella mera fase di attivazione dei processi per i quali è stata istruita; sarebbe addirittura impossibile incontrarsi, avvicinare i corpi reciprocamente, in questo ambito, senza la presenza del design visuale quale intermediario. Si tratta del tentativo di significare qualcosa che nell’epoca attuale – similmente alle opere d’arte e alle imprese straordinarie di vite e di lavoro – mentre avviene sembra impossibile che stia accedendo. È un evento (o una serie di eventi) che si manifesta come l’accadimento stesso del mondo nella forma di palinsesto o, in quella prospettiva storica, la quale racchiude i segni, le tracce, la memoria – sempre più visiva – di un processo di ricerca in equilibrio precario, orientato all’azionarsi dilatato del tempo (in un imprecisato “post-contemporaneo”) all’inseguimento di spazi che restituiscano l’opportunità del movimento. Non essere parte dell’azione (la quale richiede molto impegno) significa restarsene al di fuori degli accadimenti dinamici dell’esistenza.
Le riflessioni che si srotolano all’interno del primo numero di IO01 Umanesimo Tecnologico tendono soprattutto a porre l’attenzione sul significato esteso del tema centrale che lo caratterizza, il quale nell’accezione antropologico-culturale implica la presenza dell’umanità per definizione. La ricerca connessa alle tecnologie, infatti, non fissa esclusivamente il sapere teorico sulla natura essenziale dei materiali ma anche (talvolta soprattutto) «sul loro uso e sulle loro proprietà con influenze dirette sull’organizzazione sociale e politica»[1].
I saggi che aprono la prima sezione della rivista mostrano una sorta di prospettiva ribaltata rispetto alle modalità di intendere un sé (odierno) attraverso il meccanismo dei filtri auto riflettenti. L’incorporeità della luce nell’installazione di Dan Flavin rappresenta la trasfigurazione, in forma di fluorescente iconografia non figurativa. La ricerca di un panneggio – tecnologico – da dimensionare digitalmente, piegando, ripiegando, accartocciando idee e folder, è anche aspirazione al tentativo di toccare pixel attraversando viali di monitor, senza dimenticare il processo storico di un fenomeno visuale definitivamente svincolato dal presupposto di “vestire la figura”. (E qui penso anche all’abito del performer…). In tutte le sezioni, emergono il tema dello spazio e della rapidità, la vocazione nebulosa al corpo e al reale, l’urgenza di comprendere e di fare sintesi nella vastità in-contabile delle informazioni. Chi produce le tecnologie le deve ricercare, consapevole che queste sono simultaneamente accelerazione e decelerazione, medium sufficiente e insufficiente; sono del ritmo globale e pertanto vanno normate e affiancate dal mondo della conoscenza letteraria, senza la quale, la figura riemergerebbe (quasi) unicamente in forma di prospettiva illusoria, dell’io-schermo che guarda il mondo.
Concludo ricordando ad alta voce che nella pratica di fabbricar macchine e scene, affiora l’esigenza di determinare processi di meraviglia. Si tratta di un inno allo stupore, allo straordinario, alla metafora. È una caccia al tesoro dove il tesoro c’è, senza attendere un “post-“.