Ritengo che questa rubrica – che inauguro ora con un’intervista all’artista Arcangelo Sassolino – assuma un senso particolare per alcune motivazioni che vorrei nel modo più sintetico cercare di condividere. Suggerisco di sostituire quel pizzico di ambiguità che spesso connota le citazioni con il valore celebrativo che definisce invece la parola evocare. Insieme alla dimensione estetica e antropologica della narrazione, mi preme anche comunicare l’idea di non perdersi[1] drammaticamente sul serio durante la lettura delle risposte, perché avverto che potremmo ricominciare ad essere felici mentre amiamo (qualcosa o qualcuno). Il nome della rubrica fa riferimento alla vicenda dell’intervista al regista, interpretato da Orson Welles, nel mediometraggio del 1963 di Pier Paolo Pasolini intitolato La ricotta.[2]
In questo numero delego la narrazione a tre domande, tra quelle poste dal collega Paolo Sacchini all’artista, durante un notevole dialogo intitolato Arte, tecnologia, ricerca, svoltosi lo scorso 24 maggio 2023 presso l’aula magna dell’Accademia di Belle Arti di Brescia SantaGiulia, quarto appuntamento della rassegna Flussi d’Arte, uno speciale de I Mercoledì di Accademia SantaGiulia, che per tutto il 2023 – alla sua terza edizione – è dedicata alla scoperta dei tesori nascosti di BGBS2023 (Bergamo Brescia 2023 – Capitale Italiana della Cultura). Mi riserverò di porre in prima persona la quarta domanda (come se fosse una sorta di sovrappensiero), che resterà sospesa finché Arcangelo Sassolino deciderà – in totale libertà – di trovare lo spazio-tempo per rispondere.
«Concepisco la scultura come un lavoro sull’instabilità, sulla dissipazione, sui momenti di rottura e transizione. Mi interessa, soprattutto, catturare l’istante in cui qualcosa sta diventando altro da quello che è. Penso alla scultura non come ad un presente statico, ma piuttosto come ad un flusso di tempo, del suo essere incessante, ineluttabile e imprevedibile mutamento proprio come la vita stessa[3].»
Paolo Sacchini
Un estratto dalla lecture introduttiva all’incontro
Il tema arte, tecnologia, ricerca è molto prossimo a quello più generale che ha costituito il cardine dell’iniziativa Flussi d’arte dei nostri Mercoledì dell’Accademia. Nel caso specifico del lavoro di Arcangelo Sassolino si tratta proprio anche della “tecnologia che si inserisce all’interno della pratica artistica”. Questo fatto costituisce un fenomeno centrale della ricerca per tutto il comparto AFAM[4], quindi per lo studio artistico, in ambiente accademico e non. Che cosa vuol dire fare ricerca nelle arti visive? Quando si strutturerà – veramente – un sistema della ricerca all’interno del comparto? Queste sono alcune delle riflessioni che con la direzione e con i colleghi capi dipartimento Massimo Tantardini e Carlo Susa abbiamo in questo anno accademico affrontato e condiviso.
Il rapporto tra arte e tecnologia non è una questione scontata. Innanzitutto, il concetto di tecnologia, come lo intendiamo oggi, senz’altro è abbastanza recente, più recente di quanto non si possa credere. Ne aveva scritto tra l’altro tre anni fa, nel saggio di apertura del numero 0 di IO01, il collega Carlo Susa[5]. Ma al di là della cronologia le tecniche e le tecnologie sono sempre state utilizzate dagli artisti, di fatto dai tempi più remoti; banalmente, la tecnica è al servizio dell’arte da sempre. Nel Novecento questo rapporto si è fatto ulteriormente ricco perché le avanguardie storiche hanno utilizzato tutti i mezzi di cui disponevano: la fotografia, il cinema, la radio, la televisione, il video. È chiaro che c’è una permeabilità tra questi due mondi. Oggi si parla di intermedialità, di transmedialità, e ormai è difficile – non impossibile, però certamente difficile – trovare un artista che si riconosca solamente in un medium.
La ricerca implica sempre una certa quota di investimenti, anche “a fondo perduto” perché è chiaro che quando ricerchi non sai bene che cosa trovi, magari ti poni un obiettivo ma serendipicamente trovi un risultato diverso ed è anche qui che sta la sorpresa del lavorare con la materia. Anche da questo punto di vista il lavoro di Arcangelo Sassolino è emblematico perché è chiaro ed evidente anche solo guardando le sue opere: pensando all’installazione per il padiglione di Malta dell’ultima edizione della Biennale di Venezia, ad esempio, che c’è una ricerca condotta con fondi – senz’altro – in relazione ad aziende e con centri di ricerca che possono mettere a disposizione un know-how che inevitabilmente non è alla portata del singolo artista. Questa è l’ennesima dimostrazione che – volenti o nolenti – sotto molti aspetti l’artista è anche un regista di operazioni estetiche che vanno oltre le sue stesse competenze tecniche; in altre parole, anche l’idea che si possa fare tutto con le mani e che tutto ciò che non è prettamente stato fatto a mano non sia opera, è un’idea fuori tempo massimo. Potrebbe sembrare inutile ribadirlo, ma in realtà bisogna farlo perché non è così. Si pensi dunque all’esempio più recente legato alla creazione di Sassolino, la citata grande installazione del padiglione di Malta alla Biennale di Venezia, in cui il punto di partenza tradizionale in questo caso era costituito dall’opera maltese di Caravaggio La decollazione di San Giovanni Battista conservata alla Valletta. Visitando l’installazione si scorgevano gocce di acciaio incandescente che colavano dall’alto accendendo la scena drammaticamente – alla maniera della luce di Caravaggio – per poi spegnersi a contatto con l’acqua delle vasche poste topograficamente in dialogo con il dipinto di Caravaggio, collocate in corrispondenza delle posizioni dei personaggi dell’opera. Si percepiva poi anche la presenza materica fortissima, in qualche misura anche tattile: non si poteva toccare l’acciaio incandescente, però si percepiva il calore, la pesantezza, il rumore della goccia nel momento di contatto con l’acqua, che lasciava certamente anche una sensazione tattile, la quale, sinesteticamente, non poteva non essere fortissima nella percezione di tutta l’opera e quindi partirei da qui per cominciare questa nostra chiacchierata.
La prima
Paolo Sacchini
Da dove è arrivata questa passione per la tecnologia?
Arcangelo Sassolino
Appunto i temi, volevo spaccare questo titolo, arte tecnologia e ricerca. Arte è davvero una parola, è quasi impossibile da definire. Per me fare arte è proprio un tentativo di riconciliare la coscienza di esistere, il fatto che siamo qui adesso, che è un tempo che durerà poco, perché tra un’ora saremo tutti da un’altra parte e la nostra vita, di ognuno di noi, prosegue. Ma tale coscienza di esistere, di essere qui, il resto della realtà, e la realtà siete voi, siete la tecnologia; le macchine, la strada che ho fatto per venire qua. Ecco, per me fare arte è tentativo di conciliare questo fatto di esserci come individui e domandarmi che senso abbia la vita. L’arte mi ha salvato perché fin da bambino avevo questa spinta nel fare, nel costruire con le mani. Mi è sempre venuto facile pensare in tridimensionale. Cioè io vedo il mondo in tridimensionale. Vedo una bottiglia e mi immagino già la macchina che la produce, la pressione dell’aria che la gonfia, quando la goccia di plastica è ancora fusa, vedo il livello dell’acqua che vibra. Perciò questa cosa non sapevo bene cosa farne per molti anni, finché ho incontrato Matisse. Così fortuitamente un incontro “che la vita ti fa succedere”. Mi ha veramente cambiato l’esistenza e ho iniziato a dedicarmi all’arte ed è stato – ed è – un percorso lungo e meraviglioso, lo auguro a tutti voi. […]
Non sapendo cosa fare della mia vita e avendo un po’ di pressione da parte della mia famiglia, che mi ripeteva spesso che non avrei potuto passare il resto della tua vita in garage a costruire oggetti, mi ero iscritto a Ingegneria Meccanica, all’Università di Padova dove non ho frequentato una sola lezione perché, nel frattempo, avevo brevettato un giocattolo, il quale mi ha permesso di frequentare uno stage, che doveva durare qualche mese, a New York. Perciò io mi sono trovato catapultato a vent’anni dalla profonda provincia Veneta a Manhattan ed è stato un giro di boa. Ho iniziato a lavorare per questa azienda che letteralmente inventa giocattoli, un’agenzia che li crea per il gruppo Mattel, per il gruppo Hasbro della Fisher Price. Le idee non mi mancavano e a me faceva comodo essere a Manhattan, sentire quell’energia, c’è sempre quello sliding doors, colpi di fortuna, e così ho incontrato una persona che mi ha portato alla retrospettiva di Matisse al Moma; lì è letteralmente cambiata la vita, perché improvvisamente tutti quegli anni a costruire, dedicati al fare, questo approccio al mondo… improvvisamente avevo capito cos’era l’arte.
Non è stato un caso che si trattasse proprio di Matisse, perché nelle ultime stanze della retrospettiva c’erano questi meravigliosi cut-out che lui faceva da anziano, quando non riusciva più bene a dipingere, ci vedeva un po’ meno e perciò ritagliava queste forme con le forbici e faceva questi collage stupendi ed è stato proprio lì che io ho capito che anche se non hai la capacità di fare un disegno come Durer o Leonardo o fare certe sfumature come quelle del Perugino o quel maledetto di Raffaello… cioè è in quel momento che capisci che l’arte è prima di tutto un atteggiamento tra te e il mondo esterno. È importante che le menti diventino un territorio di conquista. Per fare arte devi solo sconfinare, devi andare in territori che non sono stati toccati, se non fai questo percorso resti dentro il cono d’ombra di quello che è stato fatto. Se esci da questo cono d’ombra cominci a camminare su un territorio che è tuo, solo tuo. E ti prendi anche il rischio perché per tanto tempo non vieni capito o magari vieni capito dopo.
L’unico modo per fare l’artista è essere in qualche modo originali e unici e l’unico modo per esserlo è seguire voi stessi, cioè tirarlo fuori dalla vostra testa. Che sia un ricamo grande così (fa gesto con le mani) o che sia una benna meccanica che gratta per terra o che siano nuove tecnologie, non ha importanza cos’è. Non ha importanza, non c’è una cosa che è più importante, fuori moda, eccetera; sono tutte balle. Se avete qualcosa da dire dovete difendere questa cosa e portarla avanti. Portarla avanti vuol dire che non ci sono scorciatoie.
Però l’unica cosa che credo salvi l’artista, in qualche modo, ed è anche il privilegio e la meraviglia del fare arte, è riuscire a tirar fuori chi sei. Per farlo, almeno per me, è stato un percorso molto lungo, ma una volta che inizi a sconfinare su un territorio tuo è davvero magnifico perché sai, finalmente, che un po’ alla volta, ti stacchi da quello che è stato fatto e, un po’ alla volta, cominci a camminare nel vuoto.
La seconda
P. S.
Alcune opere che abbiamo visto scorrere mentre parlavi pongono al centro della ricerca l’idea di “velocità”, ma bisognerebbe capire a quale velocità? Ci spieghi un po’ meglio questo lavoro, come funziona?
A.S.
Quello è il primo lavoro che ho dedicato alla velocità. In questo senso mi sento appartenere a quel filone che viene dal Futurismo, che passa per l’Informale e l’Arte Povera, che raccoglie questa meravigliosa tradizione che è stata la nostra storia dell’arte del secolo scorso. Questo lavoro è semplicemente una macchina che spara bottiglie, delle banali bottiglie di birra di vetro a 1000 chilometri orari. Mi piaceva l’idea che questi oggetti attraversassero lo spazio a una velocità impossibile da essere registrata dalla retina, che fosse più una percezione a livello neurologico. Quando la macchina ha sparato, la bottiglia è già polverizzata, è già distrutta. Cogliamo che c’è stato un incidente, una sorta di lutto. Qualcosa è cambiato, però non l’abbiamo visto. Mi piaceva come cosa. Nell’arte visiva siamo abituati a vedere, in questo caso mi piaceva che qualcosa non lo si potesse vedere. La velocità, la gravità, la pressione, il calore, l’attrito, sono tutti elementi che amo sondare perché penso possano attraversare la materia a tal punto da farle raccontare qualcosa di diverso. Malgrado mi affascini molto come oggetto, credo di aver trovato la mia declinazione personale della bottiglia: o la sparo, o la faccio esplodere. Penso ai dipinti del Seicento, penso ai meravigliosi dipinti di Morandi… ma guardate un dettaglio nella foto dell’opera, voglio mostrarvi un elemento, questo affare che vedete dietro alla cartuccia è un’elettrovalvola. Io amo le elettrovalvole: mettono assieme elettronica e meccanica, basta dare un impulso elettrico e qualcosa di meccanico avviene. Come i diaframmi delle macchine fotografiche si spalancano per un millesimo di secondo, e in questo caso la povera bottiglia viene investita da una pressione tale che la spara a 1000 chilometri orari. Oggi penso che questo lavoro mi dia molta noia, nel senso che mi sembra veramente uno schizzo rispetto a quello su cui stiamo lavorando adesso in termini di velocità, infatti sto provando ad arrivare a 3.600 chilometri orari.
Credo comunque che ancora molto sia equivocato sulla questione della tecnologia, o forse che esistano più equivoci. Intanto l’arte visiva – quella del costruire, quella del fare, sia che si realizzi un dipinto a olio o si scolpisca il marmo – non può scappare dalla tecnologia. C’è un legame che è fortissimo tra scienza, arte e tecnologia. Provate a calarvi in tempi diversi, a pensare cosa sia stato scoprire i tasselli dorati che sono poi diventati cupole bizantine meravigliose; pensate a tecniche che sono affiorate e poi sparite, alla tecnica dell’affresco, alla possibilità anziché di stendere la figura su un piano, di spalmarla attorno. Alle volte immagino gli artigiani che hanno visto e spiegato l’esistenza di pigmenti che potevano essere assorbiti dentro la materia… non so se avete mai scolpito il marmo… il marmo è meraviglioso, è come usare il fioretto: se lo stringi troppo lo soffochi, se lo lasci andare ti scappa dalla mano. Tutto questo è tecnologia. Che noi parliamo di Refik Anadol, con i suoi meravigliosi schermi in cui l’algoritmo continua a creare immagini, che noi parliamo dei dischi di Anish Kapoor – non so se avete mai visto le macchine che li fanno: è una macchina, è praticamente una levigatrice di una precisione pazzesca –, o se pensate a un artista (che amo tantissimo), Richard Serra… ci sono soltanto due calandre al mondo che sono in grado dare forma alle sue installazioni: una è a Baltimora e l’altra è in Svezia. Sapete cosa vuol dire prendere una lamiera di 5 metri per 12 metri, di spessore 5 cm, e falla diventare una specie di Borromini?
P.S.
Si sente molto questa tua attenzione alla tecnologia. Immagino che sia per questo che ti sei iscritto a ingegneria, anche se poi non l’hai frequentata. Si vede che c’è una passione…
La terza
P.S.
Alcuni degli studenti che ascoltano, che leggeranno le tue risposte, si chiederanno di certo “Beh, con che faccia mi presento a un’azienda, io che non sono Arcangelo Sassolino, che non ho 25 anni di carriera alle spalle, e che sono un giovane studente?”. Tu come hai fatto?
A.S.
Quest’estate, quando prenderete il vostro aereo che vi porterà in giro per l’Europa o per il mondo, sotto a quel guscio attaccato all’ala, dove c’è il logo della compagnia aerea, sapete cosa c’è sotto lì? Sapete come funziona una turbina che deve spingere per 15 ore centinaia di tonnellate a mille chilometri orari, magari in mezzo a una tempesta, dove l’aria diventa densa come un gel? Cioè, voglio dire, tutta “quella cosa lì” è tecnologia, altissima tecnologia. È termodinamica, è fisica. Sono materiali, sono i prodotti di aziende che lavorano appositamente su quella cosa lì. E con tutto questo io non posso non farci i conti. Quando vado a visitare certe fabbriche, e ne vedo tante, ogni volta mi rendo conto di quanto io sia una formica rispetto a quello che l’industria oggi produce. Sapete come funziona un affare di questi? (mostra uno smartphone, ndr.). Sapete cosa vuol dire comunicare con qualcuno dall’altra parte del mondo, senza che ci sia un cavo, senza che vi sia niente per migliaia di chilometri? Sapete cosa vuol dire forgiare un anello da 7 metri con una precisione di un micron, cioè un millimetro spaccato in mille parti, su un diametro di 7 metri? Quello che l’industria produce, quello che la nostra realtà produce, è parte di ciò che siamo. Ecco perché non posso non fare i conti con questo mondo, soprattutto se ho l’arroganza di pensare di fare lo scultore. Questo è. E se credo, come credo, che l’arte debba sconfinare dentro il nuovo – ovvero l’unico modo che gli artisti hanno per sopravvivere, cioè avere questa spinta che li porta fuori da quello che è stato fatto – per forza devo inglobare quello che c’è là fuori.
Convincere imprenditori, industriali, questo si fa un po’ alla volta. Sapete quante volte sono andato dall’artigiano locale e mi ha detto “no, non si può fare”, specialmente se mi presento come “artista”. A un certo punto inizi però a capire che quello che fai è in qualche modo giusto, e se là fuori non riescono a percepirlo è un problema loro, non tuo. Qualcuno percepisce e capisce e questo rende possibile una collaborazione. Immaginiamo che io voglia usare una turbina di un aereo: farei fatica a costruirla. È allora meglio andare da un’azienda che ha un know-how, magari secolare, nel fare questo tipo di tecnologia. Molte volte dipende anche dal tipo di persona che s’incontra, dalla capacità di trasmettere loro la passione… ci sono degli imprenditori là fuori che sono estremamente illuminati.
P.S.
Bisogna provarci quindi…
A.S.
Sempre, ma senza paura. Voi ve li scegliete gli amici, no? È la stessa cosa: non desideri stare con qualcuno che ti drena energia, vuoi stare con uno che te la dà. Lo stesso vale per le aziende. […]
Se avete una fede e la seguite, di sicuro qualcosa succede. Dovete circondarvi delle persone giuste, dovete fargli capire che veramente c’è qualcosa, che c’è una ragione per cui il vostro progetto dovrebbe esistere. Logicamente i soldi non sono mai abbastanza: io avrei bisogno di 10 milioni all’anno per fare quello che ho in testa, e invece annaspiamo ogni volta con progetti che rimangono nel cassetto. […]
Quando mi è stato chiesto di fare un lavoro che si ispirasse a quel meraviglioso capolavoro, ovvero La decollazione del 1608 di Caravaggio, ad esempio ho pensato che l’unica soluzione potesse essere di tentare di dialogare senza cadere nella retorica o nel sentimentalismo, che sarebbe stato facilissimo dovendo lavorare con uno come Michelangelo Merisi. La mia idea è stata allora quella di produrre una luce nuova, e a meno che voi in famiglia abbiate un’acciaieria in casa, o un altoforno, la luce dell’acciaio fuso è davvero qualcosa di spettacolare. Perciò abbiamo creato un modo per far colare acciaio fuso dal soffitto… secondo me, la vera novità di quest’opera è proprio ciò che non si vede, in quanto si trova lassù, sopra l’impalcato di putrelle, dove la fusione dell’acciaio avviene per induzione, cioè attraverso la creazione di campi magnetici. È bellissima come cosa: si tratta di campi magnetici fatti con la corrente elettrica, con una spirale di rame, che per non fondersi deve essere irrorata all’interno da acqua fredda in pressione. Sono quindi due macchine diverse messe assieme: un chiller e una macchina che produce i campi magnetici. Tutto il metallo che attraversa questo campo magnetico passa da 0 a 1500 gradi in un secondo, come se fosse cera. È una magia… per me era qualcosa di straordinario il fatto che la scultura fosse realizzata da un attrezzo che non tocca la materia. Mi piaceva proprio che il filamento metallico passasse attraverso qualcosa di invisibile e diventasse altro.
Io amo questi circuiti elettrici, non ci capisco niente.
La quarta
Massimo Tantardini
Arcangelo tu credi che trovare il mezzo e il modo di far esistere ciò che abbiamo dentro, far diventare mondo ciò che percepiamo – la nostra stanzetta o il nostro garage – conquistare nuovi territori prospettici attraverso la mente, il corpo, le emozioni, possa aprire a nuove forme di narrazione e condivisione?
A.S.
…