Se è vero che le parole rimangono legate alle loro origini anche quando danno l’impressione di distaccarsene, a maggior ragione questo principio vale per un termine come ‘umanesimo’, che, pur avendo conosciuto innumerevoli tentativi di riformulazione nel corso degli ultimi secoli, non potrà mai non evocare in chi lo legge o lo sente quello specifico atteggiamento spirituale e culturale verso lo studio dei testi antichi e il periodo storico – compreso grosso modo tra l’inizio del XIV e l’inizio del XVI secolo – in cui esso si sviluppò. Oggi il termine viene usato in modo diffuso e variegato – ora con cognizione di causa, ora a sproposito –, spesso quasi come se la sua semplice evocazione potesse da sola rappresentare una soluzione alle aporie caratteristiche di un’epoca, quella in cui viviamo, in cui i progressi della scienza e della tecnica, l’affermazione di un individualismo sfrenato, e l’ipertrofia dell’economia e della finanza appaiono sempre più inconciliabili con l’idea di umanità nella quale molti di noi si riconoscono, e che ha contribuito a foggiare la civiltà occidentale. Per questo, di primo acchito, può apparire sorprendente il fatto che siano relativamente pochi – e quasi sempre incentrati su argomenti molto specifici, più che su problematiche generali – gli studi sul rapporto tra gli umanisti tardo-medievali e la tecnologia del loro tempo.
In realtà, posta semplicemente in questi termini, la questione potrebbe apparire incongrua, o addirittura frutto di un abbaglio storico. Per noi, in effetti il concetto di tecnologia è strettamente legato a quello di scienza. Per certi versi, la tecnologia può essere definita come la risoluzione organica e ragionata a problematiche tecniche date, a partire dalle teorie e dalle prassi scientifiche. Se si accetta il fatto che la tecnologia sia definibile come una «tecnica scientifica», logicamente si può dedurre che, senza il pensiero scientifico può esistere solo la tecnica, non la tecnologia.[1] Se quindi si identifica la nascita del pensiero scientifico nei contenuti e nelle risultanze degli scritti e delle ricerche di Galileo e dei suoi contemporanei, la domanda su quale potesse essere il rapporto tra gli umanisti e la tecnologia può apparire inconsistente.
Nelle scienze umane tuttavia i problemi sono più complessi di quanto possano sembrare quando si applicano i principi della logica a semplici definizioni. Anche se è un dato acquisito che il pensiero scientifico moderno si sia sviluppato a partire dal XVII secolo, l’approccio scientifico agli ambiti naturali è molto più antico. È ormai universalmente nota e condivisa, ad esempio, l’importanza della filosofia greca per lo sviluppo del pensiero scientifico occidentale. Un po’ meno noto è l’apporto dato dai pensatori medievali; si può dire tuttavia che, dopo l’uscita del fondamentale studio di Edward Grant sul tema, i tentativi di tracciare una storia della scienza che perpetuano le più trite leggende sul medioevo fideistico e superstizioso non sono più ricevibili.[2] Proprio lo studio di Grant, ci consente di considerare un fenomeno storico particolarmente importante per il tema di questo scritto: il periodo che oggi chiamiamo ‘umanistico’ è stato quello in cui vennero poste le basi del pensiero scientifico moderno. E se è vero che solo nel Seicento si sarebbe arrivati a una concezione organica di un pensiero fondato sulla prassi sperimentale, i più acuti pensatori del Trecento e del Quattrocento hanno potuto intuire quale sarebbe stata la crescita della pianta i cui semi erano stati interrati nella loro epoca.
Questo naturalmente non basta a dare un senso compiuto all’interrogativo sul rapporto tra umanisti e tecnologia. Il concetto di tecnologia infatti si è sviluppato pienamente in un’epoca successiva. È vero però che molte manifestazioni di ciò che noi oggi chiamiamo tecnologia si sono palesate sin dall’antichità. In particolare, la costruzione di macchine che vennero percepite come protesi, prolungamenti o potenziamenti degli arti e delle azioni umane è un processo noto sin dalle grandi civiltà arcaiche (si pensi, ad esempio, alle macchine da guerra o a quelle usate per costruire le grandi strutture architettoniche).[3] Anche in questo caso, il periodo umanistico segna un fondamentale salto di qualità nella storia della tecnologia occidentale, con la comparsa della prima macchina ‘automatica’, l’orologio meccanico, la cui invenzione e prima diffusione risalgono al periodo a cavallo tra il XIII e il XIV secolo. Fino a quel momento, la misura del tempo era affidata all’osservazione di fenomeni naturali o, in ogni caso, a macchine che usavano forze ed elementi naturali. L’orologio meccanico era invece un artefatto semovente in grado di misurare il tempo in modo più preciso dei sistemi che l’avevano preceduto. Questo portò alcuni degli intellettuali del tempo a interrogarsi su quale potesse essere il ruolo delle macchine e della tecnologia nel piano divino, al punto da spingere il vescovo di Lisieux Nicole Oresme, uno dei più grandi pensatori del Trecento, a descrivere la Creazione come qualcosa di paragonabile alla costruzione di un orologio in grado di muoversi autonomamente.[4]
Oltre all’orologio meccanico, il basso medioevo vide la comparsa di molte altre novità tecnologiche che cambiarono radicalmente le condizioni di vita delle persone, le modalità e i ritmi di lavoro, e talvolta anche il paesaggio; tra queste, ci limitiamo a ricordare qui: il mulino a vento verticale, il maglio idraulico, l’altoforno, alcune armi da fuoco come il cannone e lo schioppo, gli occhiali e la stampa a caratteri mobili. Contrariamente all’immagine che spesso se ne dà, quindi, il mondo in cui vivevano gli umanisti era – in relazione ai parametri dell’epoca – in rapida trasformazione e, in quel contesto, le novità tecnologiche svolgevano un ruolo fondamentale (in quest’ottica, possiamo dire che avesse qualche punto di contatto col nostro). Ha senso quindi chiedersi quale fosse l’atteggiamento degli umanisti di fronte a questi fenomeni. Non potendo, in questa sede, approfondire il discorso come richiederebbero le questioni sollevate, ci limiteremo a offrire al lettore delle semplici ‘istantanee’ dell’approccio che ebbero tre celebri umanisti al tema del rapporto tra l’uomo e la tecnologia, in modo da dar conto sinteticamente di quelle che appaiono essere le tendenze principali di quella corrente culturale.
Petrarca contro le ‘arti meccaniche’
Francesco Petrarca, com’è noto, oltre che essere stato uno dei massimi poeti della letteratura italiana è pressoché unanimemente considerato il primo umanista della storia, ovvero la figura archetipica del movimento, per la sua tendenza a indagare la natura dell’animo umano a partire dagli ideali della classicità, per la passione ‘antiquaria’ che lo animava nella ricerca dei testi antichi e per la sua attitudine a interpretarli in senso storico, più che in senso allegorico (come invece si era fatto per molti secoli prima di lui). Il suo esempio sarebbe stato seguito dagli umanisti del secolo successivo che, in molti casi, ne avrebbero assunto e approfondito l’approccio allo studio dei testi, le posizioni intellettuali, i riferimenti culturali. In questo senso, la sua polemica contro le ‘arti meccaniche’ riveste una fondamentale importanza del delineare la posizione umanistica nei confronti di ambiti di conoscenza che oggi associamo alla scienza e alla tecnologia.
Per comprendere questa polemica è necessario ricordare quale fosse il clima intellettuale in cui si sviluppò. Petrarca appare, nel XIV secolo, in un panorama culturale italiano ed europeo dominato dalle università e da tendenze di pensiero come l’occamismo e l’averroismo che, sia pur in modalità e con accenti differenti, tendevano a fondare l’indagine intellettuale sulla logica e sulle evidenze materiali, a discapito della metafisica. Fatte le debite proporzioni tra epoche diverse, Petrarca si trovò ad affrontare tendenze culturali che avevano qualche omologia con lo spirito positivista e scientista e non tardò ad entrare in collisione con esse. Il destro gli fu offerto da un ignoto medico della curia papale che, in polemica risposta ad alcuni consigli che aveva offerto al Pontefice, sostenne l’inutilità della poesia, in quanto forma di espressione illogica e astratta. Il poeta rispose con i violentissimi Invectivarum contra medicum quendam libri IV (1355), nei quali difende a spada tratta il tradizionale primato delle arti liberali (Grammatica, Dialettica, Retorica, Aritmetica, Musica, Geometria e Astronomia) su quelle meccaniche (che comprendevano Armatura, Medicina, Caccia, Lavorazione della lana, Navigazione, Performativa [Theatrica], Architettura e Pittura; in qualche modo, assimilabili alle nostre discipline tecnico-artistiche e alle scienze naturali).
Nelle sue invettive, rivolgendosi direttamente al destinatario della polemiche, Petrarca nega alla Medicina, in quanto ‘arte meccanica’, la possibilità di contribuire a formare una conoscenza profonda dell’uomo: «Fai il tuo mestiere, meccanico, ti prego, se ci riesci; cura i corpi se puoi, e altrimenti uccidi e fatti pagare la mercede del tuo delitto».[5] Anche se gli apparati concettuali ed ermeneutici non sono ancora quelli che ci sono familiari, è come se il poeta limiti l’azione della medicina alla possibilità di intervenire sul corpo, inteso come materia e come ‘macchina’, riservando alle arti liberali la possibilità di indagare sull’anima e sul senso più profondo dell’umanità.
Anche in ragione di queste prese di posizione di Petrarca, si sarebbe sviluppata, in Europa e in particolare in Italia, una visione culturale fondata sulla separazione e sulla dialettica tra scienze umane e scienze fisico-naturali, che dall’umanesimo sarebbe arrivata fino a noi.
Ficino e l’indagine sulla natura e sulla tecnica
L’asprezza del tono usato da Francesco Petrarca non deve far pensare a una preclusione totale degli umanisti nei confronti delle scienze naturali e della tecnica. Tra le figure più significative dell’umanesimo ad aver trattato in modo ampio questi temi, va certamente ricordata quella del fiorentino Marsilio Ficino, le cui posizioni si inseriscono a pieno titolo nell’ambito di una consolidata tradizione medievale che, a partire dalla valorizzazione benedettina del lavoro manuale, aveva rivalutato la conoscenza della natura e delle arti meccaniche. Questa tradizione aveva percorso il medioevo fino alla vera e propria rinascita del XII secolo e alla grande teorizzazione di Ugo di San Vittore che, nel suo Didascalicon, definisce la scienza come «il complesso delle arti tecniche che comprendono tutte le attività del lavoro umano e si dicono opportunamente meccaniche nel senso di imitatrici [secondo l’etimologia greca del termine]», inserendole nel quadro delle attività in grado di avvicinare l’uomo a Dio.
Ficino raccoglie i frutti di questa tradizione di pensiero, nell’ottica dell’approccio umanista e del suo ambizioso tentativo di conciliazione tra l’antica tradizione religiosa pagana, il pensiero ebraico, la filosofia greca e quella cristiana. Nel tentativo di portare alla luce e teorizzare una docta religio che possa essere una sintesi delle diverse culture, presenta una visione della natura fondata su presupposti di derivazione pitagorico-platonica, che prevede l’esistenza di un’armonia prestabilita tra microcosmo (l’uomo) e macrocosmo (l’universo), postulando una perfetta corrispondenza tra l’attività della mente umana e la realtà. Tale corrispondenza è sostanziata dalla matematica che, in questo modo, diviene l’espressione del ritmo e delle proporzioni precisi con cui Dio ha creato il cosmo. Come si può intuire, questa concezione della natura e di un ‘Dio matematico’ sarebbe stata in seguito ripresa da grandi personaggi dell’epoca moderna, tra i quali possiamo citare Leonardo Da Vinci e Galileo Galilei.
In questa visione, le arti meccaniche assumono una grande importanza, in quanto i loro prodotti, vale a dire le creazioni umane, rispecchiano l’armonia della creazione divina. Nella monumentale Teologia platonica (1482), Ficino si sofferma sulla storia di Dedalo e Icaro che, insieme a quella biblica della costruzione della Torre di Babele, è il racconto che più di altri forniva spunti ai pensatori e agli artisti tardo medievali riguardo le potenzialità dell’ingegno dell’uomo e la funzione della tecnica e i loro possibili limiti, sia morali che fisici.[6] Nella visione del mito di Ficino, l’ottimistica esaltazione dell’ingegno di Dedalo prevale nettamente sull’insegnamento morale legato al destino mortale toccato a Icaro. Questa posizione va posta in relazione con l’analisi che l’umanista fiorentino conduce sulla valenza e sull’intima natura dei prodotti tecnico-artistici, nell’ambito della quale scrive: «l’uomo imita tutte le opere della natura divina e perfeziona, corregge ed emenda le opere della natura inferiore». In questo senso, «la capacità dell’uomo è dunque pressoché simile alla natura divina, in quanto l’uomo si governa da sé, cioè in base alla propria prudenza e alla propria arte, per nulla costretto all’interno dei limiti della natura corporea, cercando di emulare tutte le opere della natura superiore».[7] La corrispondenza tra pensiero umano e creazione divina quindi fa dei prodotti dell’ingegno umano delle creazioni ‘a immagine e somiglianza’ di quelle di Dio.
Manuzio e il concetto di prodotto culturale
Tra gli umanisti che si sono inseriti nel solco di pensiero tracciato da Ficino, giova qui ricordare quello la cui opera in campo editoriale può essere considerata, più di ogni altra, il miglior esempio di connubio tra umanesimo e tecnologia, Aldo Manuzio.[8] Di origini laziali, Manuzio si trasferisce a Roma, giovanissimo, per studiare il latino, proprio negli anni in cui nella città si sviluppano importanti imprese tipografiche gestite da immigrati tedeschi (come, in quel periodo, avveniva anche in altre città italiane). Si sposta poi a Ferrara per studiare il greco, e poi a Mirandola, dove stringe un rapporto di amicizia con quello che sarebbe divenuto il migliore allievo di Ficino, oltre che uno dei protagonisti della scena culturale della fine del Quattrocento, Giovanni Pico della Mirandola. Grazie a Pico, Manuzio inizia la sua carriera di precettore a Firenze.
Proprio la straordinaria vivacità dei contesti culturali emiliano e fiorentino e l’esercizio della vocazione educativa sono elementi decisivi nel processo di completamento del suo profilo umanistico e nell’avviamento della sua parabola editoriale. I nipoti di Pico e figli del signore di Carpi, Alberto e Lionello Pio, oltre che i suoi primi studenti, sarebbero divenuti anche i primi finanziatori delle sue pubblicazioni. Il rapporto di Manuzio con l’editoria tuttavia diviene centrale nella sua vita tra il 1490, anno in cui si trasferisce a Venezia, e il 1495, anno in cui fonda una società insieme a quell’Andrea Torresani da Asola che sarebbe divenuto anche suo suocero, e a Pierfrancesco Barbarigo, figlio del doge allora in carica. Torresani lavorava già da anni nel campo della tipografia e, tra l’altro, era stato uno dei primi a diffondere libri in piccolo formato, ‘in ottavo’, che oggi chiameremmo ‘tascabili’. Contrariamente a quanto si legge da più parti, infatti, non fu Manuzio a ‘ideare’ questo formato, per il quale pure è ricordato. È interessante quindi capire in cosa sia consistito effettivamente il contributo originale di Manuzio alla storia dell’editoria e in che modo la sua formazione umanistica abbia influito sulle sue scelte editoriali.
Il primo elemento di originalità di Manuzio sta nell’essere stato promotore di un progetto editoriale. Fino al suo avvento, i tipografi stampavano libri su commissione, oppure decidevano di stamparli a seconda delle tendenze del mercato. Manuzio è il primo vero editore della storia, dal momento in cui mette la stampa al servizio di un progetto culturale di chiara matrice umanistica. Inizialmente influenzato, in questo, dall’ambiente umanistico emiliano, pensa addirittura di limitarsi alle edizioni delle opere di soli autori greci: Teocrito, Museo Grammatico, Aristotele, Aristofane, Ateneo di Naucrati e Dioscoride. Quando questo progetto si rivela insostenibile dal punto di vista economico e lui decide di aprire ai classici latini e persino anche a qualche testo in volgare (Petrarca e Dante), c’è chi, tra i suoi conoscenti, lo accusa di affarismo. Proprio l’attenzione alla conciliazione tra gli ideali e le istanze del mercato (tanto per fare un esempio, come accade ancora oggi, alcune sue scelte sono dettate dal fatto che i testi sarebbero stati adottati in ambito universitario) è una delle qualità che gli hanno permesso, pur tra mille difficoltà, di rendere sostenibili i suoi progetti editoriali, al punto che essi si interromperanno solo alla sua morte (1515). La stessa ‘invenzione’ delle edizioni «aldine» si lega all’intuizione che il formato tascabile del libro, che fino a quel momento veniva utilizzato solo per libri ‘di consultazione’ come le grammatiche e i breviari, avrebbe potuto funzionare bene anche per i classici del pensiero e della poesia. Proprio questa intuizione di Manuzio avrebbe rivoluzionato il modo di leggere, contribuendo a creare una sorta di ‘liturgia laica’ culturale.
Altra caratteristica originale di Manuzio è l’estrema cura nell’edizione dei testi. La stampa delle origini era da molti accusata di corrompere i testi, più che di diffonderli. Quando ad essere stampati erano i testi sacri, refusi, errori e ‘invenzioni’ dell’editore erano considerati degli atti di blasfemia, al punto che la stampa era vista da qualcuno come un’invenzione diabolica, perversa e pervertitrice.[9] Da vero umanista, Manuzio mise, nel suo lavoro di editore, un’assoluta, filologica attenzione all’integrità e alla correttezza del testo, contribuendo in modo decisivo a riscattare il valore del libro stampato anche agli occhi degli studiosi più seri e arcigni.
Un ulteriore elemento di assoluta originalità dell’opera di Manuzio è infine il gusto per lo stile e la qualità estetica delle pubblicazioni. Il suo sodalizio con il disegnatore e tipografo bolognese Francesco Griffo, durato circa otto anni, può essere anch’esso considerato un crocevia della storia dell’editoria. Manuzio si avvale dell’arte di Griffo sia per le illustrazioni delle proprie pubblicazioni, sia per la progettazione dei caratteri con le quali venivano stampate. Anche in questo caso, l’idea che un libro non sia semplicemente l’esposizione di una successione di lettere, di parole e di pagine, ma veicoli uno stile che sia espressione dei suoi contenuti, si lega all’idea dell’umanesimo inteso come approccio di natura etica ed estetica all’elaborazione culturale e all’educazione. Tra i moltissimi capolavori prodotti dalla coppia Manuzio-Griffo, ci si limita qui a ricordare l’Hypnerotomachia Poliphili (1499), il romanzo allegorico narrato per immagini, da qualcuno definito la prima ‘graphic novel‘ della storia, e il celeberrimo carattere corsivo, oggi internazionalmente noto come italic type, che Griffo concepisce imitando la veloce ma elegante grafia caratteristica delle cancellerie e degli scrittori umanisti. Il carattere compare per la prima volta in due righe dell’edizione delle Epistole di Caterina da Siena (1500) e l’anno successivo viene usato per l’intera edizione delle Bucoliche di Virgilio.[10]
La passione per l’associazione tra parole e immagini è tipica del gusto cinquecentesco per l’emblematica. Anche in questo caso, va sottolineato come Manuzio sia tra i pionieri dell’ideazione di ciò che oggi chiameremmo un ‘logo’, vale a dire un simbolo associato a un’impresa commerciale. La celeberrima marca della tipografia di Manuzio, che associa il motto «Festina lente» («Affrettati lentamente») all’immagine di un delfino che si attorciglia attorno all’asta verticale di un’ancora, risulta particolarmente significativa alla luce dei temi affrontati in questo scritto, sia per l’origine tipicamente umanistica di questo emblema – Manuzio lo trae infatti da un’antica moneta d’argento, emessa dall’imperatore Vespasiano e donatagli dal cardinale Pietro Bembo –, sia per il concetto di interazione paradossale che viene veicolato dalle parole e dall’immagine.
Elementi utili al dibattito sul concetto di «umanesimo tecnologico»
A questo punto, per cercare di portare un contributo al dibattito sulla definizione del concetto di ‘umanesimo tecnologico’, possiamo, in conclusione, cercare di trarre, dalle ‘istantanee’ dei tre grandi umanisti che sono state qui proposte, degli elementi significativi, utili alla ricostruzione di un possibile profilo dell’atteggiamento implicito che gli intellettuali umanisti mantenevano nei confronti della tecnologia.
La polemica di Petrarca contro il medico, rappresentante delle arti meccaniche può essere interpretata, nell’ambito dell’atteggiamento umanistico nei confronti delle diverse forme culturali, come un indicatore di una specifica forma di discernimento. L’umanesimo legge la realtà concentrandosi ‘naturalmente’ – verrebbe da dire – su un’idea di umanità per concepire la quale cerca di limitare l’impatto delle tendenze contingenti per andare alla ricerca di un concetto che possiamo definire ‘metastorico’. Per gli intellettuali umanisti, gli autori antichi e le loro opere rappresentano un’idea di umanità il cui valore è almeno equivalente a quella dei moderni (quando addirittura non viene considerata superiore, in quanto più chiara e vicina all’origine), al punto che si rapportano con loro come fossero loro contemporanei. È questo atteggiamento a favorire lo ‘straniamento’ dalla malia delle novità e dalla loro pretesa di assolutezza. Per quanto straordinarie possano essere, le invenzioni contemporanee, non potranno mai cambiare in modo significativo la natura metastorica dell’umanità; al limite, potranno esasperarne degli aspetti, ma in questo modo determineranno un allontanamento dell’uomo dalla sua vera natura. Non è un caso che sia stato proprio Petrarca a inaugurare la moderna prospettiva storica, superando la concezione antica e medievale di una storia intesa come collezione di fatti notevoli. Per lui, i documenti storici non vanno dati per scontati, ma, al contrario, devono essere ‘isolati’ dalle opinioni che i contemporanei hanno su di essi per poterli indagare con acribia filologica fino a dimostrarne la genuinità o l’apocrifia.[11] Questo isolamento dal proprio tempo, sia dell’intellettuale che dell’oggetto di indagine, è il presupposto necessario per istruire un’indagine efficace e concepire un giudizio corretto. Estendendo questo principio al rapporto con le invenzioni tecnologiche, è possibile affermare che per l’umanista, la tecnologia va posta in una prospettiva storica, il cui centro è rappresentato da un’idea di umanità che prescinde dai valori contingenti delle diverse epoche.
Questa idea di umanità metastorica, nella prospettiva neoplatonica condivisa da una buona parte degli intellettuali umanisti, si pone in relazione con la Creazione e le sue leggi, essendone parte integrante. Da qui nasce l’atteggiamento di Marsilio Ficino nei confronti delle arti meccaniche, che, pur sembrando in contrasto con quello di Petrarca, in realtà può essere letto come una sua integrazione. Come suggerisce anche l’immagine dell’universo-orologio di Nicole Oresme, per Marsilio Ficino, la tecnica è un’opera umana che viene realizzata a immagine e somiglianza della creazione divina e, in questo senso, deve essere considerata come una sorta di sua prosecuzione. Un aspetto implicito di questa rivalutazione è che il discorso sussiste a patto che l’uomo ‘meccanico’ – oggi diremmo l’uomo ‘tecnologico’ – progetti le sue opere in consonanza con le leggi che regolano sia il macrocosmo universale che il microcosmo umano. Quando questo accade, l’uomo ‘tecnologico’ diventa un epigono della Creazione, come il grande genio Dedalo. Quando tuttavia ciò non accade in quanto il progetto umano si sviluppa in modo disarmonico, la sua opera si pone invece in continuità con quella dei costruttori della Torre di Babele, essendo animata dalla medesima hybris e destinata al medesimo esito fallimentare.
La conseguenza logica e storica di questi presupposti è perfettamente rappresentata dal ‘caso’ Aldo Manuzio, vale a dire dall’intellettuale umanista che sposa il proprio pensiero con la tecnologia per portare avanti in modo molto più efficace il proprio progetto culturale. Questo ‘matrimonio’, contrariamente a quanto si potrebbe pensare oggi, non era per nulla facile da celebrare. Come detto, Manuzio è costretto a modificare il progetto editoriale originale per renderlo economicamente sostenibile: a noi questa scelta può apparire scontata, ma per un intellettuale vissuto a cavallo tra il XV e il XVI secolo, intriso di neoplatonismo e dunque di concetti legati a un’idea di perfezione da raggiungere, una scelta di questo genere dovette essere certamente sofferta. Fino a che punto ci si doveva piegare alle istanze del proprio tempo? Fino a che punto era lecito rompere il ‘magnifico isolamento’ umanista? La soluzione trovata da Manuzio a questi interrogativi è espressa magnificamente dal simbolo delle sue edizioni. L’affrettarsi con lentezza, ovvero reggere i ritmi del mondo moderno prestando tuttavia la massima attenzione a ciò che si fa, è l’efficace sintesi del suo modo di intendere l’atteggiamento che deve stare alla base di un’impresa culturale. Parallelamente, l’interazione tra una macchina che garantisce fermezza e stabilità, come l’ancora (o come la stampa a caratteri mobili), e un animale celebre per i guizzi e per la sua intelligenza (l’intellettuale umanista) non potrebbe esprimere meglio l’interazione tra un’ammirazione per il passato tesa alla ricerca di un’idea di umanità perenne e la necessità di affrontare le sfide poste dalle innovazioni tecnologiche.