Abstract
L’articolo analizza i cambiamenti effettuati dalle nuove tecnologie attraverso le modifiche ai concetti di memoria e archivio focalizzandosi sul nuovo ruolo dell’immagine.
La memoria e l’archivio
La memoria si è radicalmente modificata all’acuirsi del nostro rapporto con la tecnologia.
Affievolita su tutti quei sensi non coinvolti nell’attraversamento dell’immagine, la memoria rimane legata a quei pochi che abbiamo maggiormente allenato.
I ricordi che fanno di noi ciò che siamo in divenire, attraverso l’esperienza, l’empatia e la personalità, si sono adattati al senso della vista che li guida.
L’archivio, inteso come l’agglomerato di dati e informazioni raccolti durante la vita, per l’essere umano è attualmente duplice, da una parte abbiamo un archivio interno, alla quale la memoria fa riferimento per ritrovare e richiamare alla mente, dall’altra quello esterno, cioè una raccolta dei ricordi che affiorano attraverso la materia e che affiancano la memoria nella nostra costante ricerca del passato, o meglio delle nostre origini.
L’archivio, interno ed esterno, è stato notevolmente modificato dall’introduzione e soprattutto dall’utilizzo sempre più massiccio del digitale. Se quello interno ha subito la sempre maggiore alienazione legata ai media e la modifica della percezione di chi lo utilizza, quello esterno è cambiato in modo decisamente più visibile.
Negli ultimi anni con la convivenza e spesso dipendenza dal Web e in particolare dai Social Media, l’archivio esterno, che prima era contraddistinto da una materialità, sta svanendo lasciando spazio sempre maggiore a ricordi digitali e come tali incorporei.
Parafrasando una riflessione di Nicholas Negroponte[1] potremmo dire che l’attuale civiltà si sta evolvendo eliminando gli atomi di informazioni, elementi materiali, per sostituirli con i più leggeri bit, elementi virtuali. Questa considerazione insieme alle caratteristiche proprie delle nuove tecnologie definiscono una tipologia di informazioni che per sua natura oltre ad essere intangibile risulta anche facilmente manipolabile e diffondibile.
La creazione e il mantenimento dei nuovi archivi virtuali è fortemente incoraggiata dalle aziende che raccolgono questi dati al fine di creare quell’enorme deposito di contenuti generati o condivisi dagli utenti denominato Big Data.
Ma cosa significa modificare l’archivio e di conseguenza la memoria? Ferraris, nel libro Mobilitazione totale[2], proponeva l’esempio dell’Alzheimer che non viene interpretato come la perdita di una facoltà, la memoria, bensì come una patologia che arriva a investire vari elementi, come identità, competenze e pensiero.
Il pensiero, considerato come possibilità di ragionare sugli elementi dati, utilizza in modo assiduo l’archivio attraverso la memoria, ed è questo il motivo della sua eterogeneità, in quanto nessun archivio può essere identico ad un altro.
Partendo dall’assunto che queste considerazioni siano corrette, le modifiche effettuate all’archivio attraverso la tecnologia possono modificare le dinamiche del pensiero.
Nel Web è stata la nascita dei Social Media a modificare davvero i comportamenti umani. I primi esempi di espressione individuale virtuale, come ad esempio i Forum, prevedevano l’utilizzo dei Nickname e cioè la possibilità di creazione di avatar virtuali distinti dalla persona reale o quantomeno non riconducibili alla stessa. L’anonimato forniva la possibilità di comunicare senza esporsi personalmente con una conseguente maggiore libertà di palesare se stessi. Ora, nel medium social, risulta maggiormente efficace e comune condividere immagini e con esse i propri corpi.
Ciò che per sua natura è immateriale, attraverso i corpi, tende a vivere della materialità degli utenti.
La percezione
Nella percezione dell’archivio sono compartecipi due elementi fondamentali: il tempo in cui esso vive e la sua forma.
Per quanto concerne il tempo, ad esempio nel medium televisivo, la scelta dell’utilizzo del materiale da trasmettere non subisce il condizionamento obbligato del contemporaneo, creando forti asincronie temporali. Fiction e programmi possono essere riutilizzati in qualsiasi momento completamente slegati dal loro periodo di provenienza.
L’utilizzo dell’archivio a livello percettivo è così andato a creare una sorta di “eterno presente”.
Questa percezione sfalsata del tempo è stata certamente potenziata dal web. All’interno dei siti web, dei motori di ricerca e ancora di più nei Social Media è difficile comprendere la datazione degli elementi e più in generale il tempo non è visto come elemento sostanziale. Il flusso del web è veloce, le nuove tendenze non fanno in tempo a nascere che già sono scomparse, tanto che potremmo utilizzare il termine di “eterno passato”.
L’altro elemento alla base della percezione dell’archivio è la sua forma. Dagli anni novanta ad oggi stanno completamente sparendo i supporti materiali dei ricordi. Il problema dei bit rispetto agli atomi e la loro mancanza di fisicità che li rende più difficili da vedere e “maneggiare”.
L’aspetto dei ricordi nelle bacheche dei Social Media è quello più caotico, in quanto la consultazione richiede un tempo proporzionale alla quantità di contenuti inseriti che in alcuni casi corrisponde ad infinite sessioni di scrolling.
La forma dell’archivio inoltre risulta sempre più monomediatica, pur essendo il digitale contraddistinto dalla multimedialità un unico medium risulta in costante crescita: l’immagine.
L’immagine
Trent’anni fa, i neuroscienziati Raymond e Shapiro[3] hanno coniato il termine attentional blink per definire il fenomeno che si osserva sperimentalmente sottoponendo i soggetti a una rapida sequenza di stimoli visivi, di natura testuale o fotografica. Col loro studio confermano la risposta immediata alle immagini rispetto ai testi, calcolando un intervallo tra i 200 e i 500 millisecondi di tempo necessario per comprendere e ricordare uno stimolo visivo target tra una serie di stimoli visivi distrattori. Questo intervallo è stato ricalcolato nel 2010 (accorciandolo a meno di 100ms) da Martens e Wyble[4], e solo quattro anni dopo la neuroscienziata Trafton del MIT[5] a soli 13ms.
Sorge spontanea la domanda rispetto a questa diminuzione esponenziale di intervallo di tempo: è stato ricalcolato meglio l’intervallo o lo stesso in pochissimo tempo è variato così tanto? Effettivamente dal 1992 al 2014 le capacità del medium visivo attraverso lo strumento tecnologico sono decisamente cambiate.
Se questo da una parte conferma la massima che “un’immagine vale più di mille parole” dall’altra ci da un’idea di come il nostro cervello subisce il bombardamento di informazioni anche durante una sessione di scrolling compulsivo sui moderni social media.
Inoltre, lo studio di Glezer et al.[6] conferma che anche i contenuti testuali vengono memorizzati nel nostro cervello abbinando le parole a una sorta di dizionario visuale, conservando le informazioni per immagini. In un certo modo, comunicare per immagini evita al cervello un ulteriore livello di elaborazione al processo di immagazzinamento dei dati.
Ormai le piattaforme social rappresentano per molti la prima fonte da cui ricevere “informazioni”. Si è assistito nell’ultimo decennio a un incremento lineare del numero di utenti, che in proiezione supererà i sei miliardi (il 75% della popolazione mondiale)[7].
Contestualmente si è evoluto il modo di fruire delle piattaforme, in cui in soli dieci anni la comunicazione di natura testuale è stata completamente soppiantata da quella visiva, assistendo anche alla nascita di servizi praticamente basati solo sulla condivisione di immagini e brevi video. (Figura 1) [8]
Su Facebook poco più del 71% dei post sono immagini, solo il 2.8% dei contenuti sono costituiti dall’aggiornamento del proprio “stato”, che aveva dettato il successo della piattaforma al suo nascere, permettendo a tutti di avere un proprio diario, un diario anomalo dai contenuti tutt’altro che segreti. (Figura 2)[9]
Gli utenti di Messenger si inviano oltre 17 miliardi di foto al mese, mentre il numero di foto caricate ogni giorno su Instagram è stimato in 95 milioni, il che significa che si aggiungono 2,85 miliardi di nuove foto condivise su Instagram al mese[10].
Questi dati indicano certamente un trend in continua crescita
L’oblio
I dati riguardanti le immagini dimostrano la loro continua e indiscussa crescita numerica all’interno dell’archivio web. La catalogazione di questo materiale molto spesso è completamente delegata agli strumenti propri di piattaforme commerciali. Ad esempio, un motore di ricerca utilizzerà un crawler, un software che analizza ed indicizza i contenuti della rete.
La nuova società dei dati è certamente interessata ad una buona catalogazione di questo materiale in quanto può essere utilizzato per la costruzione di dataset. I dataset, alla base del processo di auto apprendimento delle macchine (machine learning), sono enormi quantità di dati che vengono catalogati, ripuliti e, nel caso dell’apprendimento cosiddetto supervisionato, anche etichettati. È attraverso i nuovi, ed enormi, set di dati che negli ultimi anni l’intelligenza artificiale ha raggiunto un nuovo apice.
Se per l’archivio individuale le immagini diventano un ammasso caotico, soggetto a perdita e difficilmente organizzabile, nell’archivio collettivo questo medium visivo torna a nuova vita attraverso l’arte generativa in cui, facendo parte di dataset, può almeno come modulo riemergere.
Come la creatura di Frankenstein[11], essere composto da pezzi di diversi esseri umani deceduti, anche le immagini immesse nella rete si ricostruiscono attraverso la loro catalogazione nei dataset in nuove immagini che, probabilmente andranno a loro volta a costruire altri set.
Le possibili conseguenze riguardano un archivio visivo senza precedenti di cui la catalogazione e il riutilizzo sono principalmente riservati alla macchina che nel suo emettere nuovi dati, nel caso specifico nuove immagini costruite attraverso moduli di quelle provenienti dal reale, finirà per servirsi degli stessi che essa stessa ha prodotto. In questo caso, non eccessivamente distopico l’oblio delle immagini sarà definitivo in quanto il tempo di questo nuovo archivio potrà essere definito solo come “eterno passato presente”.
L’immagine è immortale in quanto morta e costantemente riportata in vita. (Figura 3 )[12]
Lorenzo Di Silvestro e Cristina Iurissevich
(Accademia di Belle Arti di Catania)
Bibliografia
- S.J. Dixon, Number of global social network users 2017-2028, Statista.com, 2024
- M. Ferraris, Mobilitazione totale, Laterza & Figli, Bari 2015.
- L.S. Glezer et al., Adding words to the brain’s visual dictionary: novel word learning selectively sharpens orthographic representations in the VWFA, Journal of Neuroscience, 35(12), pp.4965-4972, 2015
- S. Martens – B. Wyble, The attentional blink: Past, present, and future of a blind spot in perceptual awareness, Neuroscience & Biobehavioral Reviews, 34(6), pp.947-957, 2010
- N. Negroponte, Essere digitali (1995), Sperling & Kupfer, Milano 1995
- J.E. Raymond – K.L. Shapiro – K.M. Arnell, Temporary suppression of visual processing in an RSVP task: An attentional blink?, Journal of experimental psychology: Human perception and performance, 18(3), p.849, 1992
- M. Shelley, Frankenstein, ossia, Il moderno Prometeo (1818), tr. it. di Chiara Zanolli e Laura Caretti, Mondadori, Milano 1982
- D. Shvartsman, Facebook: The Leading Social Platform of Our Times, Investing.com, 2024
- A. Trafton, In the blink of an eye: MIT neuroscientists find the brain can identify images seen for as little as 13 milliseconds, MIT News: on campus and around the world, 2014
- S. Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism. The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, Profile Books, London 2019
- www.digitalinformationworld.com/2021/05/images-videos-or-links-study-shows-most.html
- www.smartinsights.com/ecommerce/ecommerce-strategy/social-commerce-trends