Oggi bisognerebbe interrogarsi sul significato e sulla condizione della scrittura: qui non si intende la questione del testo quale rimando ad una traccia tangibile ed originaria, fisicamente situata da qualche parte, né ad un’incisione né ad un’iscrizione. La scrittura è l’azione che mette in fila lettere e poi parole in un testo le cui molteplici repliche vengono poi diffuse su larga scala, è un metodo di composizione come lo sono il suonare o il dipingere.
L’operazione mediatica che segue il raggiungimento di una forma-testo amplia la cosiddetta parte creativa dell’attività, si potrebbe dire che la superi: una storia editoriale finisce quando non esiste più né memoria di un’opera né riferimento ad essa.
L’avvento di una tecnologia, inconcepibile fino a 50 anni fa, ha portato ad un nuovo livello tanto la scrittura come metodologia di creazione quanto la sua dimensione socio-mediatico-economica, plasmando con la fantasia un futuro senza libri nella forma cartacea, soppiantati dalle loro controparti digitali, in realtà non così tanto influenti nel “mondo occidentale”[1], almeno per oggi.
Questo non deve distrarre dal formato elettronico e dall’ipertesto come sperimentalismi della forma stessa di un’opera, di estensione dei testi e di possibilità di diffusione. È ciò che succede in ogni pagina web, un discorso (in)interrotto verso altre pagine, una catena potenzialmente infinita, sicuramente molto lunga, di lettura, un enorme détournement per le vie di Internet.
In questo spazio, di cui ormai si sono “prese le misure”, può essere inserita la letteratura per adattarla secondo gli innumerevoli canoni che la costituiscono, fondamentalmente non esauriti ed in trasformazione, fino ad avere forme ibride indistinguibili nelle sue parti, fino ad essere escheriani.
La tecnologia è effettivamente una possibilità, un modo per andare oltre il ‘900, per poter superare quella vasta palude di spettri illustri ed ingombranti che è la storia della letteratura recente, per smettere insomma di essere scolari frustrati per l’insuperabilità dei maestri, limitandosi a svolgere compiti corretti in base alla fantasia altrui.
Da questo punto si dipanerebbero due vie collegate, simili allo stradario di Nietzsche[2], che rimanderebbero allo stesso punto, quello di chi decide di impegnarsi della scrittura e che fondamentalmente è libero di farlo come meglio crede, e spingerebbero allo stesso tempo verso il passato della tradizione ed il futuro di una nuova creazione.
Un modo è quello di mettere in discussione la produzione creativa come propugnato da Kenneth Goldsmith nella sua raccolta di saggi Scrittura non creativa[3]in cui vengono analizzate e proposte soluzioni teoriche, spesso legate alle avanguardie storiche, e tecniche che portano oggi ad una nuova concezione della scrittura e del suo modo di presentarsi sulla pagina. Lo scrittore si fa grafico, vede il testo oltre l’ossessione significante, lo plasma come una scultura: è un’evidente influenza subita dalla poesia concreta che tentava, nella metà del secolo scorso, di orientare in svariate direzioni il focus sul testo scritto. Esso poteva essere letto, facendo dunque leva sul suono (poesia sonora), organizzato mediante layout particolari che ne ampliavano o integravano il senso (poesia visiva) e così via.
Un dubbio sorge però spontaneo e potrebbe mostrare come le intenzioni temerarie ed avanguardistiche di Goldsmith finiscano per annacquarsi terribilmente: egli non rinuncia completamente alla tradizione ma soltanto ad una parte di essa, mutando semplicemente i riferimenti culturali da autori “classici”, definizione sicuramente scivolosa ma che non è il caso di approfondire in questa sede, verso chi ha certamente sperimentato ma dopotutto non così recentemente. La passione di Goldsmith per queste forme è stata riversata in un archivio online[4] nato proprio per conservarle, insieme a video, suoni, scritti, fumetti ed altro materiale che ha avuto in qualche modo uno spirito avanguardistico con influenza sul contemporaneo. Insomma, si tratta più di archeologia che di nuova scultura, di un passaggio dai “100 libri più importanti del XX secolo” a “10 autori di cui nessuno ti ha mai parlato ma che dovresti conoscere”.
Un esempio letterario si inserisce in questo solco, un caso probabilmente fra tanti altri che non rinnega completamente la tradizione ma la inserisce furbescamente in sé, sfruttandola e decostruendola fino a lasciarne giusto i semi.
Si tratta di La Palermo male[5] di Vincenzo Profeta, una raccolta di racconti o presunti tali, anche se vi è una forte ricorrenza di temi ed immagini tanto da far pensare ad un romanzo unico diviso in capitoli o anche a tanti commenti, molti dei quali orgogliosamente deliranti, sotto un post di Facebook da parte della stessa persona. Il libro è però cartaceo: può essere un ulteriore segno d’ironia ma anche di pigrizia dato che si sarebbe potuto creare un ipertesto funzionale volto ad ampliare l’opera, rendendola una vera e propria esperienza. C’è una confusione di fondo, vagamente sociologica, su ciò che è cura e ciò che è malattia.
Comunque sia, la veste grafica cartacea è eccentrica rispetto alla narrativa più comune, facendo pensare alla letteratura ergodica anche se poi questo non ha riscontro nella scrittura: Profeta utilizza l’impaginazione come un’estensione del discorso o come una grafica simbolica, un continuo intervenire del digitale nel cartaceo, una virulenta presenza che sembra infestare la psiche per poi riversarsi nel linguaggio scritto. Da questo punto di vista, interrompere la lettura di tanto in tanto per rispondere a qualche messaggio o per fare una ricerca su Google è un’esperienza che permette di comprendere meglio ciò che si sta leggendo in un costante flusso di input, spam, linee di codice di applicazioni mal funzionanti o in crash.
I contenuti sono quanto di più provocatorio, volgare e scorretto si possa partorire: nessuno è esente da critiche distruttive o più direttamente insulti e calunnie, nemmeno Falcone e Borsellino, simboli della potenza mediatica che racconta la violenza di una città intera che si insedia nell’inconscio dei suoi cittadini. Forse proprio gli argomenti sono ciò che di meno interessante abbia da offrire il libro: la ripetitività dell’autocompiacimento per la ricerca dell’improperio più estremo cade presto nel grottesco, come tutto ciò che restituiscono ripetitivamente i media. Profeta si comporta come uno di loro e tutto sommato lo sa anche se nella sua opera prova a descrivere delle vittime del sistema.
L’invasione del digitale nel cartaceo, tanto da far saltare l’impaginazione del libro è l’aspetto più interessante, ciò che potrebbe spingere verso una forma contraria: più noioso sarebbe un cartaceo invasore del digitale dato che spesso quest’ultimo è stato concepito come una conversione di formato del primo, o anche verso una terminalità del libro, una metastasi che lo distrugga e lo spinga verso una digitalizzazione o ipertestualizzazione completa.
Da questo punto si dipana la seconda strada: l’ipertesto, il romanzo intertestuale, multimediale o in qualsiasi modo lo si voglia chiamare, una narrazione che proceda per un’erranza continua che non si presenta unicamente sotto segni letterari quanto piuttosto di varia provenienza (visuali, sonori e perché no, olfattivi, di gusto o tattili). Arrivano dunque autori come gli italiani Enrico Colombini e Fabrizio Venerandi che oltre all’ipertesto hanno posto la loro attenzione sull’inclusione del lettore nello sviluppo delle storie. Un livello mai raggiunto prima e tutto sommato recente, si parla di circa 30 anni fa.
Da questo punto panoramico si dischiude una valle, quella che contiene il problema dell’interattività e dell’unione di più arti (grafiche, letterarie, musicali ecc.) all’interno di uno stesso medium conosciuto come videogioco che rimanda però ad antiche questioni circa l’imitazione e la fantasia. Lo spazio da percorrere sarebbe troppo ma, giunti a questo punto, risultano chiare le possibilità aperte ancora da esplorare e narrativamente stimolanti tanto nella forma quanto nel contenuto.
Tutto si crea, tutto si distrugge e la scrittura si trasforma.