La cultura visuale ci parla del rapporto tra immagine, parola ed informazione e del loro potere nel fare opinione influenzando il pensiero di guarda ed ascolta. Talvolta si esprime ciò che è reale, altre ciò che è totalmente immaginario, altre ancora una via mediana tra i due spesso con la difficoltà a trovarne il confine. Da quando l’uomo ha iniziato a rappresentare ciò che vedeva, per condividere con una comunità il suo pensiero o anche solo la sua esperienza, il suo racconto ha potuto essere un mezzo di formazione diretta o indiretta nei confronti degli utenti di tali rappresentazioni.
La riflessione sull’impatto della tecnologia verso le discipline artistiche mi ha rimandato allo studio “Arte Preistorica. Espressione di un modello di vita di una comunità primitiva”(M.P.Branca, Tesi di laurea, Milano 2015).
In questa tesi, chiedendomi il perché dell’esigenza a volersi esprimere attraverso una sintesi visuale ho approfondito lo studio dell’Arte Preistorica, la più remota rappresentazione d’arte prima dell’inizio della Storia che normalmente si fa coincidere con il linguaggio scritto (Arte Preistorica forma di scrittura agli albori?).
Di seguito alcune riflessioni tratte da quello studio.
«Si racconta per comunicare un’esperienza, per fare partecipi gli altri di una emozione ma anche per ricordare quanto si è vissuto, nel dire ad altri si racconta a se stessi, si chiarisce ciò che è palese ma talvolta anche ciò che è nascosto e che emerge nel raccontare. Comunicandola ci si chiarisce un’idea che aveva già una sua forma ma, forse, senza tutta la sua chiarezza. Quante volte per spiegare un concetto è stato utile schematizzarlo? Anzi, nel fare un disegno ci si trova a chiarire meglio il concetto mentale, trovando gli errori, trovando nuove interpretazioni ed associando nuove idee. Quante volte riprendendo un concetto schematizzato in precedenza ci si trova a rivivere quella stessa idea con l’esigenza di modificarla per effetto delle nuove esperienze che, nel frattempo, hanno variato la nostra visione delle cose?
Nel corso della storia dell’arte abbiamo visto in quante occasioni, per un pubblico che non sa leggere o con un ridotto bagaglio linguistico, l’espressione artistica è stata utilizzata per raccontare e comunicare una realtà, o presunta tale. Ogni volta che si guarda un’opera d’arte già vista è rinnovare l’esperienza, è ricordare associando nuove idee. Si ricorda il già visto ed ascoltato ma, a distanza di tempo, anche di un solo giorno, si è più ricchi (di esperienza) e il ricordo viaggia su più piani: quello del già noto e quello delle esperienze successive a cui quell’immagine ci rimanda trasformando il vissuto in una nuova esperienza basata su un’inedita associazione di idee. Si racconta in tanti modi, spesso chi ci guarda coglie già, nel nostro sguardo, ciò che stiamo per comunicare. Oggi parliamo affidando al linguaggio articolato il nostro pensiero (molto più spesso di quanto, ad esempio, non disegniamo), sappiamo mediare dicendo e non-dicendo, usando la franchezza giusta, talvolta adeguata al nostro interlocutore. Il linguaggio verbale è codificato, completo, è possibile esprimere concetti complessi altrimenti indicibili con altri strumenti, per lo meno con la stessa completezza, ad esempio per esprimere un pensiero filosofico. Alcuni affidano all’espressione artistica la propria comunicazione e talvolta sono chiamati a fornire una spiegazione verbale di un lavoro non adeguatamente compreso da chi lo osserva, ma spesso non ci sono spiegazioni da fornire. La pratica artistica, la forma grafica, è una comunicazione efficace, che integra e a volte sostituisce la comunicazione verbale e può essere sostitutiva tanto di più in un contesto in cui non si dispone di un linguaggio articolato complesso ed ampiamente condiviso come forse era nel Paleolitico superiore. Pensando all’Arte preistorica e non conoscendo come fosse la comunicazione dell’uomo mi sento di poter considerare l’ipotesi della circolarità del processo dell’apprendere-comunicare-ricordare come iniziale spinta propulsiva alla produzione delle incisioni e delle raffigurazioni parietali.
Nel tempo, illustri studiosi hanno espresso varie teorie ma il mio pensiero trova poco convincente l’ipotesi dell’arte per l’arte in uomini del Paleolitico superiore che, grazie alla relativa abbondanza di cibo e di ambiente favorevole, dedicano tempo per produrre queste raffigurazioni, o, secondo altre teorie, la venerazione di altre specie nell’ipotesi del totemismo, l’utilitarismo nell’ipotesi di un’arte magica finalizzata alle pratiche quotidiane, la ricerca del soprannaturale e la produzione di arte tramite la pratica sciamanica. Queste ipotesi sono forse applicabili, in varia misura e forse più d’una contemporaneamente, ma in tempi successivi del cammino dell’Uomo moderno. Il mio pensiero è più favorevole verso un’espressione artistica che, all’esordio del suo manifestarsi, molto probabilmente supera la sfera materiale ed utilitaristica, ma non è solo il risultato di un gusto estetico – decorativo così come non si può ancora chiamare pratica di magia o religione, nelle accezioni attuali o come viene rilevata nelle popolazioni attualmente ritenute primitive (che sono primitive rispetto a certi aspetti della vita di oggi ma che sono “attuali” e con un’esperienza modificata rispetto agli uomini del Paleolitico in quanto il vissuto di 40.000 anni ne ha modificato la cultura). Penso che l’Uomo moderno del Paleolitico superiore, organizzato in piccole comunità, si sia dotato della pratica artistica per comunicare e condividere l’esperienza del vivere quotidiano e dell’ambiente circostante e per poterla rinnovare ed arricchire ricordando ed in questo modo, trasformandola nella prima forma di scrittura del proprio pensiero simbolico. […] Occorre ricordare che siamo agli esordi di una pratica la cui struttura è destinata a crescere e modificarsi. Oggi possiamo fare delle supposizioni ma dobbiamo essere coscienti che e non è materialmente più disponibile il codice interpretativo di quanto rappresentato sulle pareti.
“Del Paleolitico ci è giunto soltanto lo scenario, mentre sono rarissime, e quasi sempre incomprensibili, le tracce degli atti. Ne consegue che oggetto del nostro studio può essere soltanto una scena vuota, ed è come se ci chiedessero di ricostruire uno spettacolo teatrale senza averlo visto, a partire dalle quinte raffiguranti un palazzo, un lago e una foresta sullo sfondo.” [1]
Quelle rappresentazioni parietali, raccontate ed eseguite da alcuni individui più dotati, capaci di creare una scuola, condivise con la comunità avevano il vantaggio di poter essere rinnovate e riprese da più persone anche in tempi diversi. Rinnovarle per attualizzarle creando così nuove associazioni, riutilizzando le idee precedenti ma anche modificandole, espandendole e di nuovo comunicare la vita di una comunità che si modifica, si stratifica di esperienze fino a divenire una complessa espressione culturale e sociale.
Nelle rappresentazioni sulle pareti e nell’arte mobiliare , si è manifestato il bisogno umano di apprendere–comunicare –ricordare, nel suo andamento circolare. Una esigenza forte e diffusa nei differenti continenti, pressoché nelle stesse epoche e forse senza contaminazione fisica tra le comunità stesse.
In definitiva, penso che l’uomo è portato a ricordare per poter comunicare la sua esperienza e nel comunicare la sua esperienza la rinnova, ricordando e apprendendo nuovamente per effetto di nuove associazioni e che l’arte parietale del Paleolitico superiore è stata lo strumento efficace e stupendo per esprimere questo bisogno.»
A partire dall’Arte Preistorica, la disciplina artistica e tutte le sue connessioni culturali, con l’uso di strumenti tecnologici evoluti nel tempo, è da sempre un mezzo di divulgazione del pensiero umano nella società, con la capacità di influenzarne il gusto, l’etica e la morale.
Molti sono gli esempi, tra questi i Sacri Monti che, dalla fine del Quattrocento, sono stati un mezzo comunicativo per raccontare la storia sacra. Questi complessi architettonici edificati su colli e montagne delle Alpi occidentali sono costituiti da una serie di cappelle al cui interno sono rappresentate, in modo coinvolgente, scene di grande realismo che si riferiscono ad eventi sacri e/o storici. Le persone che li visitavano per trarne un insegnamento, certamente disciplinato dalla Chiesa, poi ne avrebbero riferito presso la loro comunità, arricchendo il racconto con le proprie percezioni ed in tal modo influenzando le esperienze di altri.
La tecnologia ha affinato gli strumenti per la formazione e la comunicazione ma, mai come ora, una così rapida e continua evoluzione tecnologica ci conduce ad una vasta esposizione mediatica con un significativo impatto sul nostro immaginario, sul nostro essere, sulla nostra percezione del mondo reale e sulla relativa comunicazione artistica, scientifica, sociale ed umanistica.
La nostra esperienza intrecciata con quelle di altri, a loro volta intrecciate, saranno trasmesse alla nostra comunità, sia fisicamente prossima che virtuale.
Assumendo la circolarità del processo apprendere–comunicare–ricordare, mi chiedo quali saranno le esperienze che condivideremo quando la tecnologia attuale e futura ci fornirà gli strumenti per esperire una rappresentazione fantastica del reale e forse isolarci dalla fisicità dei rapporti con il mondo. Come sarà la percezione del reale quando, grazie ad una cultura virtuale sempre più totalizzante ed integrata, sembreranno prossime molte finte realtà, quando essendo soli in un luogo, avremo la sensazione di stare in molti posti ed a contatto con altri che sembrano veri ma sono solo ologrammi?
Quale espressione avrà l’arte che, già oggi, può essere prodotta da algoritmi basati su dati e immagini senza richiedere l’intervento umano se non per la scrittura degli algoritmi stessi?
Come si potrà mantenere una sensibilità di vicinanza con l’ambiente esterno, dopo la possibilità-comodità di guardare, modificare, credere di toccare il tutto senza avere relazioni fisiche con persone ed ambienti naturali?
Dopo l’uso continuato di strumenti ed applicazioni che ci forniscono la possibilità di tornare indietro nel momento in cui la situazione può dispiacere o il gioco diventare difficile, saremo capaci di gestire le difficoltà nelle relazioni umane dove abbandonare il campo non sarà possibile ma sarà richiesta capacità di mediazione ed analisi critica?
Ci resterà la voglia di dismettere le lenti tecnologiche ed uscire per stare nel paesaggio naturale e civile che ci ospita, di camminare per prati e per strade di città (silenziose?) e sperimentare quell’aura che W.Benjamin pensava fosse possibile ritrovare solo quando l’opera d’arte è fruita in originale nel suo contesto naturale? Quando avverrà, sarà forse con timore e stupore. Sarà il timore per essere soli in mezzo al tutto o lo stupore di chi ignora e scopre la meraviglia dell’esperienza unica dell’andare nel mondo fisico, portando con sé la propria capacità di creare nuove ed inedite associazioni che faranno parte del nostro racconto?
La tecnologia è da sempre l’investimento irrinunciabile per il futuro, a noi resta la responsabilità di farne uso senza stravolgere la nostra natura. Sarà necessario mantenere saldi e distinti il reale dal virtuale ed investire nel costante insegnamento del loro valore e delle loro profonde differenze oltre che esigere e vigilare sulla trasparenza e l’etica di dati ed algoritmi usati dalla tecnologia.