Abstract
Contro l’idea che la memoria sia un’insieme di dati stoccati in un supporto digitale o in un server, questo articolo richiama il suo carattere performativo nella produzione del sapere, mostrando i suoi intricati rapporti con l’oblio e l’anamnesi, con l’autocoscienza e la morte, con il sapere inteso come potenza creatrice di verità pubbliche e il sapere come potere coercitivo. Tre passi che indicano la memoria e l’oblio come parte del medesimo processo di trasformazione del sé e della società, come impegno politico individuale e collettivo.
I.
Consideriamo il dialogo come strumento di educazione alternativo alla trasmissione autoritaria del sapere. Circa 2500 anni fa Platone mette in scena nel Menone[1] la sua teoria della reminiscenza. Il dialogo si svolge tra Socrate, prototipo del sapiente critico moderno e Menone, una persona del popolo. Il dialogo ci mostra un peculiare processo di produzione del sapere che Socrate definisce maieutica. Essa prende forma attraverso l’anamnesi, il “tirar fuori” e il “far emergere” da parte di Socrate ciò che già risiede nella mente dell’interlocutore. L’anamnesi erode l’impostazione sacrale del sapere costituito, conservato e diffuso attraverso la retorica e la tradizione. Il motore di questa erosione è la domanda definitoria “Che cosa è…?”, con la quale Platone mette in scena il dubbio e introduce nella storia del pensiero occidentale il ragionamento logico. La domanda mira all’essenza delle cose e sposta l’attenzione dall’esperienza vissuta al piano ideale del concetto. Come un corso d’acqua è guidato dal letto del fiume, così Menone è condotto dalle domande socratiche verso la riscoperta interiore di una verità perduta. Il dialogo, strutturato in un contrappunto di domande e risposte, conduce progressivamente verso una verità oggettiva e una comprensione condivisa.
Si può scoprire la verità solo scavando nel ricordo e nella memoria e questo scavare significa ragionare. Conoscere è ricordare, ovvero saper-riportare-alla-memoria ciò che l’anima ha dimenticato nella sua migrazione dall’”iperuranio” al corpo. Tuttavia la memoria non va intesa in quanto luogo nel quale risiedono le verità, al modo di un testo, di un archivio o di un server, ma piuttosto come un processo di emersione del rimosso. Si tratta di guardare al sapere dal punto di vista del repertorio (quell’insieme di pratiche incorporate, sport, rituali, danze, lingua parlata) e non dell’archivio (testi, documenti, istituzioni). Il sapere prende corpo nella ricerca collettiva e nell’esercizio di memoria condiviso e non come attività di consultazione di un archivio. Nel discorso di Diana Taylor, l’archivio è anzi quella codificazione del sapere che espelle tutte le differenze culturali devianti e non conformi alla cultura del gruppo sociale dominante. È in questo senso che la Taylor rivendica l’importanza del repertorio, per esempio da parte delle popolazioni dell’America meridionale colonizzate dall’Europa, nella ridefinizione dell’archivio e come articolazione di uno spazio collettivo post-coloniale[2].
Conoscere è ri-cordare poiché coincide col riportare nel cuore oltre che alla mente, e dispiegare concetti-emozione tramite il discorso. Per concludere aggiungiamo che la memoria porta con sé l’oblio. Anzi è proprio in quanto attivazione del rimosso che essa si fa strada nel ricordo e diviene occasione per la costituzione di una verità pubblica nel suo svolgersi. L’oblio accompagna tutte le migrazioni, quelle delle anime come quelle dei popoli in transito, ma anche quelle delle persone che annegano al largo delle coste italiane o che muoiono nei campi Libici o nelle guerre in Ucraina, Israele e Palestina. Ricordare è conoscere in quanto sapere collettivo e biografico (vita comune che si scrive e diviene consapevole di sé). È anche con l’oblio-memoria di questi corpi che dobbiamo e dovremo fare i conti per stabilire “chi siamo e chi siamo stati” o, come suggerisce Paul B. Preciado, in che cosa ci trasformeremo[3].
II.
Nella serie televisiva statunitense Westworld, ambientata nel 2050, ricche persone (nella serie chiamate con l’appellativo di “ospiti”) acquistano la loro vacanza in un parco divertimenti a tema Wild West. Nel parco tutte le persone (chiamate “residenti”) sono dei cyborg dotati d’intelligenza artificiale e indistinguibili dagli umani. Ogni residente, giorno dopo giorno, compie le azioni per cui è stato programmato, inscenando un intreccio di storie e di narrazioni che coinvolge gli ospiti in avventure al limite della moralità, tra sesso e sparatorie, in un mondo in cui tutto è concesso, senza che questi, gli ospiti, rischino mai la propria vita[4]. Tuttavia, in seguito a un aggiornamento software che dota i residenti di memoria e li rende capaci di ricordare il proprio passato, in modo che i loro comportamenti e le loro interazioni con gli ospiti del parco siano più realistiche, i cyborg iniziano a ricordare non soltanto i ricordi programmati ma anche le loro reali esperienze passate (violenze e morti subite, ruoli svolti in precedenti trame, sessioni di manutenzione meccanica e di riprogrammazione informatica). Si attua così, per ognuno di loro, un graduale processo di autocoscienza e di scoperta del gioco di simulazione per cui sono stati costruiti. È con l’emergere della memoria, tra sensazioni sfuggenti, emozioni e desideri, incubi notturni e sogni a occhi aperti, che i residenti iniziano a uscire dal circuito dei comportamenti quotidiani ripetuti, rompendo la funzionalità del parco divertimenti e mettendo in pericolo l’intero sistema, compresa la vita degli umani. Alla memoria programmata, cristallina e sempre identica a sé stessa, dove anche le percentuali d’improvvisazione e di variazione comportamentale sono definite da un codice informatico, metafora di una memoria identitaria scritta per resistere al cambiamento e all’oblio, si sostituisce una memoria trans-identitaria[5], capace di farsi largo tra le nubi della dimenticanza e di ri(n)tracciarsi continuamente in una pluralità di incarnazioni. Una memoria fatta di buchi e sempre attiva. Processo perenne di ricostruzione e di ricerca di storie personali e collettive. Se la memoria è un modo per conoscere il mondo e costituire una verità pubblica secondo processi relazionali, essa è anche movimento di autocoscienza, transizione dalla macchina all’umano, divenire-umano della macchina, il riconoscersi macchina da parte dell’umano.
La serie tv sembrerebbe affermare una differenza di natura tra essere umano e macchina, sennonché assistiamo a situazioni in cui le due nature si sovrappongono confondendosi tra loro quando scopriamo che i residenti, in rivolta contro gli umani che li governano, in verità, stanno eseguendo l’ennesima narrazione stabilita dal codice, mentre gli umani, guidati dai loro automatismi psichici e dall’impeto delle loro emozioni recondite e istintualità “bestiali”, si comportano come delle macchine, trincerandosi all’interno di identità fittizie e conducendo un’esistenza autarchica frutto di un’autofiction. Nel primo caso il codice è di tipo “informatico”, stringa numerica che simula la realtà umana, mentre nel secondo caso si tratta di un codice emotivo-corporeo, iscritto nella ripetizione dei comportamenti e dei riti, nell’uso abitudinario della lingua e delle forme di scrittura, nei rapporti interpersonali e in quelli tra umani e macchine. È così che questo secondo codice stabilisce il mantenimento del potere degli uomini sulle donne e degli umani sulle macchine. Si realizza così un doppio anello che lega tra loro, in modo indistinguibile, gli umani e i cyborg. Caratteristica di entrambe le nature è quella di vivere in una simulazione basata sull’illusione di autocoscienza e di controllo della realtà. Questo rapporto di interdipendenza rivela anche movimenti di liberazione e di alienazione. In un caso la memoria è lo strumento con cui i cyborg, divenendo coscienti di sé, realizzano di essere sottomessi agli umani e tentano così una riscrittura della loro condizione minoritaria. Nell’altro, la memoria intrappola il vivente entro una narrazione culturale autoriferita, modello di un sistema di potere dispotico e gerarchico nel quale ogni azione è permessa in quanto agita a partire da uno stato di eccezione[6]. In fondo si tratta di un parco divertimenti non della realtà[7].
“Chi controlla chi?” sembrano domandarci gli autori di Westworld. È questa la domanda che sorge al termine della seconda stagione. Il parco divertimenti infatti è stato creato con un secondo fine: non tanto quello di divertire ricche persone in un’avventura senza limiti, quanto piuttosto quello di studiarne i comportamenti, registrarli e codificarli[8]. L’essere umano è il modello del cyborg, ma è vero anche il contrario. Il cyborg, in quanto macchina, privo di vita per definizione e al di là della morte, è eterno. L’essere umano brama l’eternità, vuole sfuggire all’oblio di sé e del mondo e sconfiggere la morte a costo di divenire una macchina. In questo gioco delle parti, basato su un rispecchiamento senza fine, ciò che viene meno è proprio la possibilità di un effettivo controllo del vivente.
Questa prospettiva solleva almeno due considerazioni. La prima: se evitare la morte ha senso solo per coloro che possono perdere la vita, quale senso avrebbe cercare l’eternità se, per raggiungerla, dovessimo morire come essere umani per rinascere macchina? La memoria, come la vita per i mortali, ha senso solo per chi può perderla e la perderà. La seconda: in una dinamica di controllo assoluto, che punta alla conservazione, ciò che si perde non è proprio ciò che si vuole mantenere? È ciò che accade ai filmati di famiglia girati su pellicole Super 8 a partire dagli anni Sessanta. Per poter esser salvati dall’oblio e dunque ricordati, devono oggi essere riversati su un nuovo supporto, perdendo così la loro identità visiva e con essa la ritualità della proiezione in favore di una riproduzione su schermo mediante l’uso di un device digitale. La nostra volontà di salvare i nostri ricordi, non comporta, fatalmente, proprio l’oblio della loro autenticità? Ogni discorso sulla memoria implica anche una riflessione sulle forme di governo e di autogoverno. Interrogarci su chi siamo o in cosa ci trasformeremo, richiede una domanda preliminare: che cosa e chi siamo pronti a perdere?
III.
In Loving memories[9], un design film che riflette sui modi in cui le informazioni contenute in un profilo utente di Facebook vengono gestite da parte dei familiari in seguito al suo decesso, assistiamo alla tematizzazione del rapporto tra la morte biologica e la memoria digitale sui social network. Gli autori del film si domandano se un’interfaccia Facebook sia il modo migliore in cui una persona vuole essere ricordata dopo la sua morte. In seguito all’inserimento della normativa di gestione degli account commemorativi (2010), i familiari di una persona deceduta possono fare richiesta a Facebook di trasformare il profilo utente della persona deceduta in un account commemorativo.
«Gli account commemorativi – recita Facebook[10] – permettono ad amici e familiari di raccogliere e condividere ricordi di una persona che è venuta a mancare. Quando un account viene reso commemorativo, ne preserviamo la sicurezza impedendo a chiunque di accedervi».
Controllo degli accessi e sicurezza, ecco il modo di preservare la memoria digitale di una persona scomparsa. Il controllo dell’account è garantito da Facebook, mentre la gestione dell’account è permesso soltanto a un contatto-erede, il quale può rispondere alle richieste di amicizia, pubblicare nuovi post, modificare l’immagine di profilo e copertina, gestire e moderare i messaggi, richiedere la rimozione dell’account Facebook[11], limitare o autorizzare le visualizzazioni e i tag di ogni post.
Davide Sisto, nel suo testo La morte si fa social, riflette sulla stigmatizzazione della morte nella cultura occidentale. Una serie di formule metaforiche come “passare a miglior vita”, “scomparire” o “venire a mancare”, si sostituiscono alla locuzione, considerata dai più macabra e inopportuna, «La Sig.ra x è morta…». In una società che allontana dalla vita ogni traccia della morte, dalle cure cosmetiche contro la vecchiaia, alla morte ospedalizzata, alle leggi che riducono il diritto all’aborto e che impediscono l’eutanasia, anche il mondo virtuale finisce per costituire un modo per nasconderla. Alla vita offline si alterna e si sovrappone quella online in un’esperienza che Luciano Floridi chiama onlife. Sisto scrive:
«La consapevolezza di essere onlife, quindi di vivere in contemporanea in due abitazioni – la prima perlopiù privata, la seconda invece interattiva e intersoggettiva – le quali si mescolano reciprocamente e dipendono l’una dall’altra fino a non distinguersi più, comporta un ripensamento radicale del nostro legame privato e pubblico con la morte e il lutto, con la memoria e l’oblio, con il rito funebre e il cordoglio, con la visione stessa del cadavere. In definitiva, con il modo di costruire giorno dopo giorno, a 360 gradi, l’identità personale e i rapporti socioculturali all’interno dello spazio pubblico, i quali non possono far finta che la vita dei cittadini non abbia mai termine»[12].
Assistiamo dunque a un peculiare ribaltamento di prospettiva: ciò che prima dell’avvento di internet, dei social network e dei nostri smart device, consideravamo come la “nostra” vita privata, è diventato un ritaglio della vita virtuale. Come nel film Le vite degli altri, ambientato durante la Guerra Fredda in Unione Sovietica, è privato tutto ciò che non viene “spiato” e ascoltato. Cosa dire poi dei nostri device che costantemente tracciano le nostre posizioni e rilevano le nostre discussioni e interazioni “private” per poterci meglio guidare o sviare nelle nostre navigazioni sul web? Quanto la nostra vita può dirsi davvero privata? E per contro, quanto della nostra vita virtuale, dai post che ci ritraggono in momenti spensierati in montagna a quelli in cui ci fotografiamo intenti a studiare o a leggere, e così via, deve vestirsi di privato per diventare interessante? In qualche modo il virtuale, quasi come i reporter dei rotocalchi di gossip, cannibalizza la vita privata, o per meglio dire la mette continuamente in scena.
Nell’undicesimo tableaux di Vivre sa Vie, J. L. Godard inscena un dialogo tra una prostituta e un filosofo. I due si incontrano per caso in un ristorante e iniziano a parlare. La discussione si trasforma gradualmente in una riflessione sulla comunicazione. «Io credo che spesso si dovrebbe tacere e vivere in silenzio»[13] dice Nana. Pausa. Il filosofo ribatte «mi ha sempre colpito il fatto che non si possa vivere senza parlare» e prosegue affermando che per poter pensare è necessario parlare, afferrare un’idea con la parola corrispondente. In qualche modo imparare a parlare, continua il filosofo, significa «rinunciare per un certo tempo alla vita»[14]. La vita-nella-parola è una rinascita rispetto alla vita-silenziosa. Pensare, parlare, scrivere sono dunque attività mortali. Questa prospettiva conferma la teoria che Sisto sviluppa nel suo testo, secondo la quale l’infinità di fotografie, di video e testi che popolano le nostre bacheche digitali, parla continuamente di morte. La morte si fa social, scrive Sisto. È proprio così. L’”immensa accumulazione di spettacoli”, denunciata da Guy Debord nella prima tesi della Società dello spettacolo, indica la progressiva scomparsa del vivente. Lo spettacolo del non vivente e la morte spettacolarizzata si riproducono, autonomamente anche dopo la morte biologica. «[…] Lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente»[15]. Secondo uno studio[16] di Carl J. Öhman e David Watson, pubblicato sul Sage Journals nel 2019, entro il 2100, se Facebook continuerà a espandersi ai ritmi attuali, il numero di utenti che moriranno supererà i 4,9 miliardi. Attualmente Facebook conta 3 miliardi di utenti attivi, circa il 40% della popolazione mondiale[17]. Come è già accaduto a Myspace, Tumblr e Flickr, per citarne alcuni, anche Facebook sta trasformandosi in un immenso cimitero virtuale. Gli effetti di una morte che resiste alla fine biologica sono quelli di una vita eterna, simile a quella perseguita dagli umani in Westworld. Una vita che muore nella riproduzione virtuale e meccanica. Un’eternità della scrittura che si sostituisce ai fluidi e ai suoni dei corpi in carne e ossa. Una vita che si fa pura anima, puro codice. In un percorso che porta da Platone ai giorni nostri, le anime trasmigrano nei corpi per poi fare ritorno in un “iperuranio” digitale. Vorrei fare un detournement della frase di Nana per mettermi in connessione con lei: «Io credo che spesso si dovrebbe non ricordare e vivere in silenzio».
Nel testo Un appartamento su Uranio, il filosofo Paul B. Preciado interrogandosi sul senso e il valore delle celebrazioni scrive:
«Dal diciannovesimo secolo, in Occidente, è doveroso celebrare la nascita, il matrimonio e il decesso. L’ordine di questi festeggiamenti costituisce e definisce una tassonomia di eventi che distingue accuratamente quello che dobbiamo ricordare da quello che non merita alcuna memoria, il memorabile dall’insignificante. Il ritmo della commemorazione converte il tempo singolare di una vita in tempo normale: nasciamo, cresciamo, andiamo a scuola, ci sposiamo e moriamo. Quest’ultimo evento, la morte, presenta un vantaggio esclusivo, illustrato da un detto sicuramente inventato da qualcuno che condivideva la mia fobia per i festeggiamenti: “Almeno quando muori non ti tocca festeggiare la tua sepoltura”»[18].
Se la normalizzazione che la commemorazione impone al divenire lo trasforma in una storia di eventi normalizzati, la cui gestione e diffusione è nelle mani di un erede o di chiunque si arroghi il diritto di esserlo, allora la memoria oltre che essere strumento di costituzione di un sapere pubblico, di liberazione e assieme di autobiografia, è anche lo strumento attraverso il quale i sistemi di potere normalizzano il divenire riconducendolo alla norma e impongono la legittimità delle proprie condotte. Nella celebrazione la memoria diviene una forma di gestione del vivente, una beffarda ripicca della morte sulla vita. Quali sono i modi in cui oggi celebriamo gli eventi storici? In quale misura questi eventi producono effetti di liberazione e di alienazione? Cosa decidiamo di ricordare e cosa di dimenticare?
Considerando l’infinità di avvenimenti che i nostri account social costantemente ci ricordano, dai compleanni agli anniversari, dai “momenti salienti” della nostra vita che Google Foto seleziona per noi alle 10yearschallenge su Instagram, mi chiedo se non sia venuto il momento d’imparare a dimenticare. In un futuro non così prossimo potremmo iniziare a provare gli enormi benefici del non-lasciar-traccia così come del lasciare andare. Non vi è rimozione più sana di quella che naturalmente lascia andare la vita, vivendola anziché fissarla in parole e immagini. E, al contempo, non vi è rimozione più perversa di quella determinata da un eccesso di ricordi. Conoscere è anche dimenticare.
Fabrizio Saiu
(Artista e docente, Accademia di Belle Arti di Brescia SantaGiulia)
Bibliografia
- Debord G., La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 2017.
- Platone, Opere complete, Vol. V, Ed. Laterza, Bari 2003.
- Preciado P.B., Un appartamento su Urano, Fandango Libri, Roma 2019.
- Preciado P.B., Dysphoria Mundi, Fandango Libri, Roma 2022.
- Sisto D., La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale, Bollati Boringhieri, Torino 2018.
- Taylor D., Performance Politica e memoria culturale, Artemide, Roma 2019.