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Un nuovo paradigma per l’arte digitale

Dal file alla proprietà digitale

Di Serena Tabacchi 05/11/2023

Ci sono voluti circa 3 anni per far conoscere al mondo cosa fossero gli NFT. Più o meno quanto ci è voluto al Dadaismo per affermarsi e diffondersi attraverso il suo primo Manifesto. L’11 marzo 2021 l’opera Everydays di Beeple viene battuta all’asta da Christie’s per oltre 69 milioni di dollari, legittimando così l’entrata della Crypto Art nella storia dell’arte contemporanea e facendo di Beeple uno dei tre artisti viventi più quotati al mondo, dopo David Hockney e Jeff Koons.

Ma se il Dadaismo ha visto molti artisti impiegare anni prima di essere apprezzati, conosciuti ed esposti nei musei, sono bastati pochi mesi per far conoscere gli artisti della Crypto Art a tutto il mondo, senza che questi dovessero passare per le consuete vie istituzionali, ma solo attraverso i loro canali social, direttamente supportati dalla loro community. Nasce così la Crypto Art, un movimento artistico legato alla tecnologia blockchain che si caratterizza per la sua dirompente innovazione tecnica e per la sua rapida diffusione tra gli amanti delle nuove tecnologie e dell’arte digitale.

Il termine viene coniato dopo varie discussioni sui social, come Discord e Twitter, dove la comunità si trova a discutere su quale possa essere il nome più appropriato per questa nuova corrente artistica. Parole come “blockchain”, “NFT”, “decentralizzazione”, entrano così a far parte del vocabolario quotidiano di tutti noi, fino a raggiungere un consenso decentralizzato attorno alla parola Crypto Arte, arte nativa digitale certificata tramite tecnologia blockchain. Ed è nel 2021 che la parola NFT diventa la parola dell’anno secondo il dizionario britannico Collins.

Uno dei primi artisti che dà vita a questo movimento si fa chiamare XCOPY, un anglosassone ignoto al grande pubblico che nel dicembre del 2018 pubblica una delle sue prime opere NFT, intitolandola Right-click and Save As guy. Come descrizione dell’opera l’artista scrive: “perché dovrei comprare quest’opera quando potrei salvarla direttamente sul mio computer/desktop (gratuitamente)?”. La provocazione di XCOPY ci pone davanti ad una grande domanda: qual è il valore di un’opera d’arte digitale se questa, in quanto file, può essere copiata e diffusa all’infinito e senza limiti?

La domanda è pertinente e a questo hanno dato risposta i Non-Fungible Token. Ma di cosa si tratta? Gli NFT sono dei token digitali non fungibili, ovvero degli eventi immutabili che si registrano su una catena di informazioni chiamata appunto blockchain. Gli NFT si possono paragonare a dei certificati. Di norma un certificato di autenticità non è altro che un documento che racchiude le specifiche legate ad un’opera d’arte. Questo documento, che nel mondo tradizionale ha valore legale, trova un suo alter ego nella forma digitale, creando così una soluzione al problema dell’unicità di un file, della provenienza e della sua proprietà.

L’opera d’arte è di per sé un bene non fungibile. Un van Gogh, ad esempio, non può essere scambiato con un Picasso e viceversa. Pertanto, ogni opera NFT appartiene ad uno standard ben preciso che ne caratterizza la sua natura. Come i certificati di autenticità gli NFT hanno dei metadati inseriti al loro interno, questi dati sono associati ad uno smart contract, un contratto intelligente che ne regola il funzionamento e permette all’artista di definire tutte quelle caratteristiche tecniche e didascaliche che vuole associare in maniera indissolubile alla sua opera.

Nel corso dell’ultimo anno l’arte digitale ha rappresentato circa il 16% del fatturato totale dell’arte contemporanea, un dato importante che prova quanto questo movimento, nato dal basso, ma forte del consenso del pubblico sui social, trovi anche un forte interesse legato alla compra vendita di asset digitali come opere d’arte NFT.

Se l’arte è stato uno dei primissimi use case ad essere associato a questa tecnologia, ad oggi sono molti gli esperimenti digitali che si avvalgono degli NFT come unico digitale verificabile e tracciabile da tutti. Pensiamo alle proprietà virtuali, pensiamo alle LAND nel metaverso, ad un avatar e a tutti i wearable che questo può indossare, ai gadget di un videogioco o più semplicemente alla nostra identità digitale, un certificato di nascita e persino un diploma scolastico. Ogni documento può essere creato digitalmente e reso unico grazie agli NFT.

Facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire su cosa si fonda la blockchain. Se le prime opere NFT sono state mintate, ovvero coniate su Ethereum, è pur vero che la blockchain non è poi una tecnologia così nuova. Teorizzata nel 1991 da un crittografo e un fisico americani (Stuart Haber e Scott Stornetta), è incarnata per la prima volta in Bitcoin solo alla fine 2009 ad opera di Satoshi Nakamoto, almeno così si narra. Nakamoto istituisce il primo database decentralizzato grazie al rilascio di token digitali chiamati Bitcoin.

I Bitcoin sono delle criptovalute che a differenze degli NFT sono dei token fungibili, ovvero interscambiabili tra loro. Un Bitcoin può essere divisivo e scambiato sul mercato ed è principalmente usato nel mercato finanziario in quanto estremamente scalabile e performante.

Precedendo Ethereum di qualche anno, la blockchain di Bitcoin rilascia sul mercato il primo NFT grafico chiamato Rare Pepe: una card digitale che rappresenta il volto del misterioso fondatore di Bitcoin in stile white collar ma interamente colorato di verde brillante, ricalcando il famoso meme Pepe The Frog che già circolava su Internet e veniva venduto su eBay già nel 2015. La popolarità di questo fenomeno fa sì che Rare Pepe diventi un po’ il simbolo di quella che poi diverrà la Crypto Arte.

Ma come funziona la blockchain? La blockchain è un archivio decentralizzato e immutabile, popolato da nodi che vengono aggiunti come blocchi di una catena. Tutto inizia con un blocco chiamato Genesis Block.

Una catena peer-to-peer, priva di controllo centrale e interamente governata dalla comunità che ne assicura il suo mantenimento. Le sue caratteristiche sono quindi: l’immutabilità, la trasparenza e la decentralizzazione, rendendo così la blockchain incorruttibile da enti centralizzati. Chiunque può accedere a tutte le informazioni registrate su blockchain e può richiedere l’inserimento di queste. Tali informazioni sono appunto immutabili, ciò vuol dire che una volta inserito un dato, questo non può essere modificato e laddove un errore venga fatto, lo si potrà bruciare e omettere dalla catena, nonostante le sue ceneri lasceranno sempre prova della sua esistenza. Un po’ le ceneri della fenice.

Sorgono una serie di blockchain a supporto dell’arte e tra queste le principali sono Ethereum, Tezos e Algorand. Ma a molti questa soluzione a volte non convince in quanto il forte consumo energetico e il costo per ogni transazione effettuata su blockchain, non incentiva l’adozione di massa. Ciononostante, con l’avvento delle side chains e green chains, i consumi energetici si riducono di ben oltre il 95% rispetto agli inizi del 2018, fino ad arrivare al tanto auspicato merge di Ethereum, lo scorso 15 settembre, il quale passa da un sistema Proof-of-Work ad un sistema Proof-of-Stake.

Se nel Proof-of-Work si dovevano usare tanti computer, ovvero tanta potenza di calcolo, come fosse una staffetta tra mega computer, per assicurarsi la creazione di un blocco di infomazioni, e quindi un NFT, ad oggi grazie a Proof-of-Stake, la blockchain di Ethereum si basa sul consenso legato al quantitativo di token posseduti dai miners, ovvero da coloro che approvano tali transazioni, blocchi, evitando così i costi energivori del sistema computazionale.

Se gli NFT hanno dato vita ad una corrente artistica dirompente, verso la quale molte istituzioni hanno dovuto affrontare ammettendoli nelle sale dei musei, delle gallerie e delle case d’asta, è pur vero che il potenziale del Web 3.0 non si è ancora espresso del tutto.

Alcune piattaforme, come metaversi e marketplace dedicati alla compravendita di beni d’arte digitale, hanno deciso di applicare la decentralizzazione a tutto tondo, cambiando la loro struttura amministrativa da imprese private a DAO, Organizzazioni Autonome Decentralizzate. Questo significa che non c’è più un amministratore delegato ma ci sono tanti utenti che attraverso un sistema di voto basato su token digitali, possono decidere le sorti di un progetto, proporre dei nuovi modelli di business e approvare di conseguenza.

Le DAO utilizzano la blockchain e gli smart contract per funzionare. Gli aventi diritto al voto sono coloro che posseggono dei token, a volte questi hanno valore commerciale ma a volte hanno solo un potere di voto e non possono essere passati ad altri membri (ovvero sono soulbound, attaccati all’anima del possessore). Si acquisiscono in base al contributo e all’impegno profuso nella DAO. Seppur le DAO possano somigliare ad una democrazia su Internet, il sistema di voto può essere molto più creativo e meritocratico. Innanzitutto, non vige il sistema democratico (1 testa = 1 voto) ma quello meritocratico, ovvero il potere di voto è proporzionale ai token posseduti. In particolare, il meccanismo di voto chiamato Quadratic Voting (o voto plurale), proposto da Vitalik Buterin, uno dei padri fondatori della blockchain di Ethereum, prevede che il potere di voto sia la radice quadrata del numero di token posseduti.

DEMOCRAZIA: 1 TESTA = 1 VOTO

TOKENCRAZIA: 1 TOKEN = 1 VOTO

QUADRATIC VOTING / VOTO PLURALE: 1 TOKEN = √ TOKEN

Pertanto, se uso 100 token per votare una proposta, il mio voto si trasforma in 10 punti a favore della stessa. Ma se avessi 9 token il mio voto si convertirebbe in 3 punti. Risultando in un gap nettamente inferiore tra chi possiede molti token e chi invece partecipa con un quantitativo minore, ma la cui voce non deve essere ignorata. L’Italia, come anche l’Europa, sta guardando a queste nuove forme organizzative ma non si è ancora raggiunto un consenso su come la gestione della decentralizzazione possa essere amministrata a livello nazionale.

È un professore associato di Informatica presso l’Università di Udine, Massimo Franceschet, a proporre un nuovo modello didattico chiamato Decentralized Autonomous Education (DAE). DAE nasce dall’intuizione di applicare i principi e le applicazioni del Web 3.0, in particolare il modello organizzativo orizzontale delle DAO, nel campo della didattica. DAE è un modello componibile e scalabile che punta a valorizzare partecipazione, responsabilità, meritocrazia, inclusività e autonomia della classe. Il modello interpreta l’esperienza didattica come un gioco per ottimizzare il trasferimento omogeneo della conoscenza da docente a discente.

Serena Tabacchi

(Direttrice e co-fondatrice del MoCDA, Museo d’Arte Contemporanea Digitale)